#Venezia75 – Napszállta (Sunset), di László Nemes

Film ambiziosissimo, divisivo, ambiguo e affasciante. Nemes orchestra nuovamente un’estrema mediazione estetica senza però mai sfondare nella sterile estetizzazione. Concorso.

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Tu ci hai risvegliati!

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Budapest, 1913. La  giovane Irisz Leiter torna nella sua città natale, sfida il suo passato e impone il suo tempo. Insomma (ci) costringe a vivere in quella fatidica ora del giorno (o della Storia?) quando luce e buio s’impastano inesorabilmente creando nuove forme e nuovi paradigmi di visione: il tramonto, certo, ma di cosa? Andiamo con ordine. Irisz risponde a un’offerta di lavoro che la coinvolge in prima persona: la prestigiosa cappelleria appartenuta anni prima ai suoi genitori (morti in un misterioso incendio quando lei aveva appena due anni) sta cercando una nuova modista. La ragazza non ha dubbi: lascia l’adottiva Trieste e fugge lì dove albergano i fantasmi più perturbanti della sua memoria. L’abbagliante e labirintico negozio che porta ancora il suo nome, però, la respinge come un corpo estraneo, la spia, ne pedina i movimenti, proprio perché la “riconosce” come una pericolosa latenza traumatica da non sondare. Irisz, insomma, instilla il caos nelle composizioni perfette e sacralizzate – “in questa stanza è passata la Regina Sissi” – gettando ombre inquietanti che schiudono il magma della modernità novecentesca (dalla psicanalisi alle ideologie anti-monarchiche, sino al cinema…). Strani movimenti abitano la notte, strani personaggi la accerchiano e rompono il sonno, strane informazioni la costringono a indagare sui misteri della sua famiglia. Irisz ha un fratello? Perché è sempre stata convinta di essere figlia unica? E perché tutti hanno paura persino di nominarlo?

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Eccoci al tramonto configurato tra la luce glaciale del potere (velato da enormi e costosissimi cappelli che “nascondono tutto il male del mondo”) e le tenebre della guerra incombente (i focolai di rivolta anti-sistema balenano in fuori campo come scintille che fanno implodere la monarchia austroungarica). Ma è intorno alla sua protagonista che ruota l’intero film: Nemes reitera l’approccio registico del suo fortunatissimo esordio inchiodandoci alla semi-soggettiva di Irisz e al suo primissimo piano come le uniche inquadrature possibili per dar forma a quei fantasmi. Il montaggio, quindi, diventa interno alla stessa inquadratura, utilizzando focali cortissime che concepiscano il fuori campo come unico spazio possibile per scorgere ancora una narrazione. Eccoci al punto: questa estrema mediazione estetica, a tratti asfissiante, non sfonda mai in una sterile estetizzazione del visibile. È vero: il giovane regista ungherese ripropone un approccio formale “di maniera” che sembra già canonizzato al secondo film. Ma se ne Il figlio di Saul lo spazio del Campo di concentramento restituiva di per sé ogni referenza all’immagine rendendoci intimamente partecipi di un orrore percepibile e (quasi) mai messo a fuoco; qui Nemes rischia molto di più perché tenta di configurare gli umori e le tracce originarie di ogni conflitto novecentesco (i prodromi della Prima Guerra Mondiale) che ribollono ancora oggi nelle viscere del vecchio continente. Insomma tra la storia di Irisz in primo piano e la Storia d’Europa che preme dal fuori campo, il film diventa un mastodontico (e rischioso) dispositivo metaforico che inabissa ogni referenza spaziale e temporale facendo rimanere solo echi lontani di qualsiasi referenza certa. Irisz è in costante movimento, oltrepassa il confine tra la luce e il buio, fluttua dalla decadente Budapest (come specchio dell’aristocrazia ottocentesca) alla giungla selvaggia (come specchio di un fratello-fantasma sovversivo, o di se stessi?), senza apparentemente attraversare nessuno spazio tangibile. La geografia della città è totalmente reinventata come fossimo in una buñueliana dimensione onirica: un costante coitus interruptus che rinvia ciclicamente il fuoco del discorso mettendolo in potenza ogni interpretazione. Ecco perché Sunset è un film ambiziosissimo e di per sé divisivo. Non a caso la proiezione veneziana del film (in Concorso) è stata scandita da convinti entusiasmi verso la “totalizzante esperienza estetica” e da irritate prese di posizione verso “l’autocompiaciuta e sterile scatola vuota”. Punti di vista forti e ben argomentati, degni di essere ascoltati a fondo, perché paradossalmente entrambi depositari di intime verità su questo film. Ma una ricezione così appassionata è di per sè il segno di un’opera centrale per ragionare sulle odierne potenze dell’immagine cinematografica.

E allora fermiamoci un attimo, sospendiamo il giudizio. Accontentiamoci di un singolo frammento. La potentissima sequenza del ricevimento “della Contessa” diventa il teatro d’incontro tra Irisz e suo fratello che irrompe con violenza, produce uno scioccante riconoscimento, impasta definitivamente luce e buio. “Tu ci hai risvegliati!” dicono i ribelli antimonarchici a Irisz. Ma perché? Cosa fa esattamente questa ragazza? Si limita a osservare: la protagonista/testimone di Sunset diventa letteralmente un angelo della storia che guarda al passato (lo sfarzo delle corti europee, degli abiti, dei riti e delle rappresentazioni decadenti) come già proiettato al futuro (la rabbia sociale che ribolle negli Stati-nazione, l’atroce esperienza sonora della guerra in fuori campo, la messa in crisi di ogni soggettività come segno inconfondibile del Novecento). Ed è in questo sottile scarto che si agitano le forze informi di un film forse non del tutto riuscito, forse eccessivamente ambiguo, ma straordinariamente lucido nel focalizzare nel confine dell’immagine lo spazio moderno di testimonianza. E allora: gli occhi schnitzleriani aperti-chiusi sul tramonto del XIX secolo (dalla mercificazione dei corpi agli spettri osceni del potere) non possono che dissolversi tra le labirintiche trincee kubrickiane all’alba del XX secolo (l’archivio di forme del cinema, arte moderna per eccellenza). Metafora troppo semplicistica? No… perché Irisz, la madre di Saul, ci sta ancora guardando dal futuro ridiscutendo ogni certezza.

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