#Venezia75 – Still recording, di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub

Sull’accessorietà o centralità della memoria audiovisiva: battaglia su cui gli artisti del film mettono in gioco la vita. Alla Settimana della Critica, da 450 ore di girato sul conflitto siriano

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Still recording si apre con una lezione di linguaggio cinematografico, e si chiude con una lezione su come ricaricare un fucile. In mezzo, Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub registrano 450 ore di quotidianità in tempo di guerra in Siria, tra Ghouta e Douma, le forze rivoluzionarie, Assad, l’assedio di Damasco. La videocamera sempre accesa e costantemente tra le mani, per i due autori è tempo di provare sul campo la tenuta dell’occhio cinematografico posto davanti all’ambizione della documentazione perenne e infinita, del reportage in diretta sotto le bombe dei jet e i proiettili delle sparatorie. Il risultato ha per forza di cose tutti gli stilemi del citizen journalism, la potenza devastante della realtà che attraversa i pixel sgranati, e insieme la forma esplosa del field recording tra corse forsennate per ripararsi dalla battaglia, e l’emozione traballante della morte che ti si para davanti sotto forma di cadaveri crivellati e pozze di sangue mai lavato via tra le macerie dei palazzi.
“Perché non gli passiamo un fucile?”, chiede ad un certo punto uno dei combattenti davanti all’ostinazione con cui Saeed partecipa a tutte le azioni d’assalto al fianco delle forze rivoluzionarie. Ma Saeed non è un soldato, lui e l’amico Milad, sorta di terzo autore nascosto dell’opera, sono artisti, si occupano di cinema, di musica, di fotografia: l’archivio del presente organizzato da Still recording si distanzia dal flusso indefinito delle pratiche dello streaming esondato ponendosi da subito anche come riflessione sul senso di adoperare la propria vena creativa, durante un conflitto estenuante e crudele come quello siriano.

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E’ evidente come i due registi tentino soluzioni formali in qualche maniera dettate di volta in volta dalle condizioni, passando da interviste estemporanee ai personaggi incrociati lungo le “dirette”, a confessioni davanti all’obiettivo, al pedinamento di figure ritornanti come il capo della truppa, o il nemico con cui disquisire di politica via radio. Ma piano piano, il tema dell’utilità del cinema quando l’assedio ti sta facendo patire la fame, sembra farsi sempre più strada: c’è questo sportivo che si ostina ad allenarsi a due passi dai carri armati, a fare piegamenti e scatti di corsa con la sua tuta celeste. Non si pone assolutamente il problema di quanto possa apparire insensato continuare a pensare al proprio training d’atleta durante una guerra, anzi, semmai dovesse essere colpito durante una sessione, afferma di sentirsi ben felice di poter diventare “un martire dello sport”.
A voler portare all’estremo il paradosso, non siamo forse così lontani da “chiunque abbia stretto una telecamera durante una battaglia”, come recita la dedica finale del film: e allora Still Recording diventa in maniera fondamentale il racconto di graffitari in azione a Douma nonostante i cecchini, studi di registrazione nati sotto la battaglia, esibizioni d’arte tra le mura crepate dai bombardamenti, la storia in sostanza della necessità del film stesso e dei suoi autori, o forse la storia di quei due gattini intirizziti tra i militari su cui ad un certo punto l’obiettivo si sofferma. Sull’accessorietà o centralità della memoria audiovisiva, insomma: una battaglia su cui gli artisti di Still Recording mettono in gioco la vita, e per la quale non sono disposti a scendere ad alcuna riconciliazione.

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