#Venezia75 – The Mountain, di Rick Alverson

Un film dagli interessantissimi presupposti che alla lunga si perde inseguento i suoi altissimi modelli. La montagna del titolo ha partorito un topolino di film… In Concorso.

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All’inizio di The Comedy – film del 2012 diretto da Rick Alverson – incontriamo il personaggio interpretato da Tim Heidecker mentre prende pesantemente in giro un infermiere che assiste suo padre privo di conoscenza. La frattura emotiva tra questo figlio e il suo vecchio genitore ci restituirà un road movie interiore di scioccante anestesia emotiva. Ecco allora: l’amarissima riflessione sull’America borghese portata avanti di The Comedy (ambientato ai giorni nostri) trova una sorta di ideale genesi in questo sconcertante The Mountain. Andiamo con ordine. Siamo nel 1954: Andy (Tye Sheridan) ha seri problemi relazionali e non riesce a distinguere gli eventi reali dai sogni a occhi aperti che produce. Sua madre è stata lobotomizzata in passato, quindi alla morte del padre rimane da solo. A questo punto il vecchio medico di sua madre – Wallace, interpretato da Jeff Goldblum, personaggio ispirato idelamente al controverso dottor Walter Freeman – gli propone di seguirlo in giro per l’America testimoniando l’agghiacciante “procedura” con mirati report fotografici. La lobotomia come cura per i difetti umani diventa la metafora delle false utopie americane: Andy fotografa quella (dis)umanità atrocemente allontanata dal dorato mondo dell’immaginario anni ’50 che il cinema e la tv avrebbero presto propagandato nel mondo intero.

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E sin qui ci siamo: coraggiosa tematica di partenza, intelligente rovesciamento delle tracce immaginarie di un’epoca, attori di livello che interpretano i protagonisti. Presupposti incredibilmente sprecati da un (a dir poco) discutibile approccio registico. Sì perché quel minimalismo esistenzialista che aveva contraddistinto i precedenti film di Alverson qui si raffredda ancora di più: ambienti ospedalieri asettici, inquadrature in formato 4:3 in campo medio, attori in stato di catatonia ripresi con insistita frontalità. IQuesto road movie a suon di lobotomie ci viene infatti restituito con una serie di tableaux vivants volutamente spogliati di qualsiasi aderenza emotiva. Sempre alla ricerca di quell’altissima autorilità festivaliera che dal Paul Thomas Andreson di The Master porta al Roy Andersson de Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza.

Il film procede stancamente… sino a quando entra in scena il personaggio di Denis Lavant. Padre di una ragazza che necessità della “procedura”, quindi delle foto di rito che la consegnino alla storia della medicina. Nelle intenzioni del regista Lavant funge da detonatore dei traumi repressi: una sorta grimaldello teorico che scardini il glaciale meccanismo filmico (“l’Arte che non sa restituire il dolore”), portandosi dietro tutte le ipocrisie americane sul controllo biopolitico di corpo e mente. E puntualmente Denis Lavant distrugge ogni geometria con i suoi moviementi sghembi e con la sua carica eversiva, come fossimo in un’ennesima incarnazione del Mister Oscar di Holy Motors. Il fatto è che Alverson non ha un punto di vista forte sulla materia trattata (come P. T. Anderson) e non fa un’interessante riflessione teorica sulle immagini (come Leos Carax). The Mountain diventa ben presto un pasticciato ibrido di preoccupante superficialità filosofica.  Persino il genio di Denis Lavant, alla lunga, viene disinnescato in grotteschi siparietti e sproloqui iconoclasti mal supportati da una regia totalmente sopraffatta dalle ambizioni di partenza. Spiace dirlo ma la montagna del titolo ha partorito un topolino di film… peccato, perché Alverson in passato ha fatto decisamente di meglio.

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