#Venezia75 – Tumbbad, di Adesh Prasad e Rahi Anil Barve

Il film d’apertura della Settimana della critica è un fantasy indiano spettacolare e potentissimo. Con venature politiche non trascurabili.

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Il fantasy di Tsui Hark e l’iconografia avventurosa di Spielberg possono compenetrarsi in una forma a parte, che contiene quella tensione al polimorfismo e alla poligamia che solo la cultura indiana può raccontarci. E questa pozione magica ha per titolo Tumbbad, poderosa e colossale (nei risultati e nei costi) opera prima diretta da Rahi Anil Barve (1979) e Adesh Prasad (1984) e forse già modello per una possibile saga.

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Tre capitoli ambientati in India nella prima metà del XX secolo, fino all’indipendenza del Paese e all’assassinio di Gandhi. Tumbbad è il nome di un villaggio isolato e maledetto, dove il piccolo Vinayak vive con la madre, il fratellino, un patrigno morente e una bisnonna vittima di un maleficio per aver osato ambire a un antico tesoro sepolto in fondo alla villa. Per il ragazzo diventa un’ossessione cercare e conquistare le monete d’oro. Nonostante i presagi di morte e orrore che lo circondano vuole arrivare fino in fondo e scoprire il mistero. La prova da superare è quella di calarsi nei sotterranei e affrontare lo spirito maligno che custodisce il bottino. Passano così gli anni, Vinayak cresce, si sposa, va a vivere in città, si fa un’amante, e soprattutto si arricchisce riportando a casa l’oro che preleva saltuariamente a Tumbbad, mentre il Paese intorno a lui cambia e gli inglesi vengono cacciati. Ma questa è una catena difficile da spezzare, anche perché l’avidità è il demone più pericoloso di tutti, forse il più difficile da sfidare e così invecchiando il protagonista sarà costretto a coinvolgere nelle sue pericolose avventure anche il figlio.  

Favola nerissima e visivamente abbagliante, alimentata da scenografie memorabili. Sin dall’inizio dominano gli elementi: acqua, terra, fuoco, vento. Il respiro epico si sposa con la materia di uno spazio-set organico, in cui i confini del genere vengono abbattuti insieme ai limiti delle forme e delle sostanze. Radici, carne, sangue, cibo, erotismo. La miscela è fluida e malvagia, spettacolo panico di grande intrattenimento ma non di sola superficie. L’operazione è infatti decisamente politica nel raccontare l’India colonizzata dall’occidente, bulimicamente pseudocapitalista, contagiata dal morbo del denaro e del materialismo e perfettamente incarnata da Vinayak. Il peccato e il Male si tramandano di generazione in generazione. E chiaramente tocca ai figli, come spesso avviene in ogni esemplare racconto di formazione, spezzare la maledizione dei padri e bruciare i mostri del passato.

 

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