#Venezia76 – A herdade (The Domain), di Tiago Guedes

Appare un cinema vecchio ma forse proprio per questo appassiona ancora. Dove la terra, la Storia, la famiglia, sono inscindibili. Un affresco imperfetto ma anche trascinante e magnetico. Concorso

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Chissà perchè, viene subito in mente Novecento di Bertolucci. Anche se, probabilmente, non c’entra nulla. Ma forse è proprio il modo di filmare il tempo, la Storia, la terra. Perché A herdade, dal latino hereditas, il luogo ha qualcosa di fisivo. Prima imponente e maestoso. Quasi una specie di regno. Poi diventa sempre più piccolo. Come se i cambiamenti nella storia del Portogallo si riflettano proprio in quello spazio. Che è principalmente quello di una delle più grandi tenute fondiarie d’Europa sulle rive del fiume Tiago. E si identifica con il protagonista, João Fernandes (interpretato da Albano Jerónimo) e segue le tappe principali della sua vita. Con tre tappe fondamentali. Il 1946, in cui bambino vede il corpo impiccato del fratello su un albero. Il 1973, prima e durante la Rivoluzione dei Garofani avvenuta l’anno successivo in cui i militari dell’ala progressista dei militari portoghesi hanno messo fine alla dittatura di Salazar. E infine il 1991, nel momento della decadenza, in cui tutti i segreti della famiglia vengono alla luce.

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Per chi confonde A herdade per una soap-opera, forse non si trova a suo agio con le forme, anche vecchie eppure sempre molto avvolgenti, di un melodramma storico/fluviale. Che, paradossalmente, per un film di 164 minuti, ha forse proprio il difetto di durare troppo poco. Perchè forse restano più sullo sfondo i mutamenti politici. Anche se il vento del cambiamento dell’inizio degli anni ’70 si vede anche in quella scena del protagonista dal commissario di polizia a Lisbona.

Si sente il marchio di Paulo Branco. Nel segno di un cinema che racconta il Portogallo ma al tempo stesso rappresenta l’ascesa e la decadenza di una grande famiglia. Il riferimento a Bertolucci è venuto più per trovare un appiglio. E se volete, tanto per giocare con dei riferimenti passati, possiamo mettere in gioco anche Kazan, Renoir e Visconti. Ma serve a qualche cosa? No. Innanzitutto perché si ricollega ai film precedenti di Tiago Guedes. La casa, la famiglia erano già al centro del suo primo lungometraggio, Coisa ruim del 2006. Mentre la lotta contro l’ingiustizia socialearriva dal sui secondo film, Entre os dedos (2008) in cui la denuncia del protagonista alle autorità dopo che ha perso il lavoro in seguito al crollo di un cantiere ha un atteggiamento simile a quello di João che non vuole uniformarsi a sostenere il governo.

Forse l’impeto poteva essere meno frenato. Anche nei momenti più tragici, quello dello scontro di João con il figlio a cena nel momento in cui sta per portare a galla una verità nascosta. Oppure (e su questi dettagli probabilmente c’era bisogno di più tempo), poteva davvero indugiare di più su alcune scene-chiave, come la malattia e l’isolamento di Miguel bambino. Però A herdade è anche un film trascinante. Anche perché non sembra mai voler lasciare nulla fuori-campo, ma portare tutte le dinamiche, gli scontri, i conflitti (familiari e storici) dentro lo schermo. Magnetico nei passaggi temporali, con il montaggio del nostro Roberto Perpignani, con un momento di una festa che è tra i più riusciti con lo sguardo di Guedes che sembra danzare in mezzo a una scena di ballo in mezzo ad altre figure che sembrano immobilizzate prima del cambiamento politico. E infine in una corsa disperata con il cavallo bianco che insegue un auto. L’illusione di un ripensamento, di tornare indietro, di poter cambiare le cose da lì svanisce per sempre.

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