#Venezia76 – Boia, maschere e segreti: l’Horror italiano degli anni Sessanta, di Steve Della Casa

Della Casa ripercorre un decennio di autori visionari, restituendo l’immagine di una cinematografia in piena espansione, famelica e insaziabile come i vampiri che raccontava. Venezia Classici doc

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Si apre su una carrellata di fughe per boschi e sentieri oscuri il nuovo documentario dello storico e critico cinematografico Steve Della Casa che, dopo i bulli e le pupe  anni ’50 e il fenomeno dei musicarelli, arriva a raccontare un altro genere che ha reso grande il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta, l’horror dei Mario Bava, dei Riccardo Freda, dei Camillo Mastrocinque, sapienti artigiani diventati ben presto nomi tutelari per tutta una generazione di cineasti internazionali e i grandi del New Horror americano.
È proprio la fuga disperata di una bellissima donna in sottoveste bianca l’immagine primaria rimasta impressa, a distanza di anni, nell’occhio e nella mente del giovane spettatore Fréderic Bonnaud – oggi direttore della Cinémathèque Française – che, assieme a Jean Gili e Jean-François Rauger, è uno dei tre grandi nomi della critica francese a dar voce al lavoro di riscoperta del genere portato avanti da Della Casa assieme all’aiuto regista Caterina Taricano.
Quell’immagine della donna in pericolo, “così eccitante per lo spettatore”, è per Bonnaud uno degli elementi cardine dell’horror italiano del decennio, che vive di un erotismo noir, inquietante, inscritto nello sguardo sgranato e folle della diva Barbara Steele, allora sconosciuto alle altre cinematografie, improponibile oggi rispetto ai nuovi standard narrativi dell’immagine femminile.

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Nutrendosi di un vasto archivio di sequenze tratte dalle opere più rappresentative del filone – dall’imprescindibile Sei donne per l’assassino di Mario Bava, vero manuale di direzione della fotografia, in cui le tinte verdi oniriche del Vertigo hitchcockiano trovano una moltiplicazione nei colori acidi della pop art, ai numerosi film in costume che recuperano e rilanciano la lezione delle produzioni Hammer firmate da Terence Fisher, il viaggio di Della Casa attraverso l’horror Sixites restituisce l’immagine di una cinematografia in piena espansione, famelica e insaziabile come i vampiri che raccontava, portata avanti da registi di grande perizia tecnica, pari (se non maggiore…) a quella che potremmo attribuire oggi a uno Steven Soderbergh per lo spiccato interesse verso il dispositivo cineamtografico e le sue possibili applicazioni.


Una generazione, raccontata anche grazie ai contributi dei successori Dario Argento e Pupi Avati – che ricorrono ad aneddoti illuminanti circa l’avanguardismo di Mario Bava nel settore degli effetti speciali – in grado di mantenere un prezioso equilibrio tra cinema commerciale e ricerca estetica, tra exploitation e poetica individuale, spostandosi dal piano puramente figurativo a quello dell’astrazione plastica: come nota Rauger, “l’immagine in questo cinema diventa il personaggio principale”. 

Via allora agli zoom spericolati, alle prospettive impossibili da premature burial cormaniano, al lavoro incredibile su luci e ombre, che ripesca con grande libertà formale dall’espressionismo tedesco al cinema americano classico agli effetti grand guignol della già citata factory inglese.
Ma Boia, maschere e segreti non si ferma soltanto al discorso estetico; da sempre interessato alla ricezione pubblica dell’opera cinematografica, Della Casa impronta anche un discorso sociologico che tiene conto dell’accoglienza riservata a questi bizzarri oggetti filmici dagli spettatori e dai critici dell’epoca.


Parte integrante di una cultura che usciva dall’esperienza neorelista per aprirsi all’universo pop, il cinema horror italiano incontra una nuova generazione di spettatori già marcatamente esterofili: è così che Riccardo Freda raccontava la necessità, per lui come per altri autori, di ricorrere a pseudonimi angolofoni, (secondo quanto accadrà con lo spaghetti western) per attrarre un pubblico evidentemente abituato ad associare il cinema italiano al dramma borghese, al cinema d’autore.

E invece mai come in questi anni l’alto e il basso dialogano tra loro e il film di genere viene preso a modello anche da cineasti che faranno tutto un altro cinema: Bava e Fellini, Argento e Bertolucci si guardano, si osservano condividendo uno spirito antineorealista, seppur modulato in modi estremamente diversi.
Spingendosi con un piccolo flashforward fino al Phenomena argentiano del 1985, Boia, maschere e segreti illumina con garbati e umili intenti divulgativi questo decennio popolato di visionari, che attraverso le convenzioni di genere traghettano l’Italia nella modernità, con l’orrore che dal ’68 in avanti non ha più bisogno dell’ancora della letteratura gotica e inizia a sfidare i mostri della contemporaneità.

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