#Venezia76 – Citizen K, di Alex Gibney

Gibney vola in Russia per raccontare la vicenda di Mikhail Khodorkovsky, uno dei grandi oligarchi del postcomunismo, oggi oppositore del regime putiano, Un percorso in vent’anni di ombre russe

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Dopo aver raccontato molti punti oscuri della storia americana recente, Alex Gibney attraversa l’oceano e le cortine di ferro per sbarcare Russia, la grande madre che pare aver finalmente trovato in Putin un padre di famiglia ideale. Ovviamente secondo la voce ufficiale della propaganda, ma anche secondo l’opinione di milioni di russi, soprattutto di quelli che abitano le aree più interne, fino alle lande sperdute della Siberia: contenti di aver trovato presidente che ha restituito equilibrio, dignità e coraggio a una nazione allo sbando dopo la fine del comunismo e gli anni ubriachi di Eltsin. Una percezione diffusa che viene sottolineata dallo stesso Gibney, a margine del film, in una specie di diario di questo viaggio “semiclandestino” all’altro capo del mondo. Ma per il depositario del grande reportage documentario, la versione ufficiale e l’acquiescenza generalizzata contano poco. Bisogna andare dietro le apparenze e far venire a galla le rimozioni di un paese che sembra non volersi interrogare sulle reali condizioni dei suoi apparati e dei suoi organi. E occorrerebbe, in più, andar oltre le strade già battute dall’informazione occidentale e dalla contropropaganda antiputiniana.

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Per questo Gibney trova la chiave di volta in un personaggio centrale degli anni convulsi della transizione, uno dei grandi oligarchi emersi dopo il collasso dell’URSS: Mikhail Khodorkovsky, il Citizen K. Un uomo che si è fatto da sé, come si suol dire, emerso dal nulla di una famiglia modesta di ingegneri. Caparbio senso pratico e fiuto per gli affari cinico e ludico. Un giocatore d’azzardo, insomma,  che già alla fine degli anni ’80 si occupa di commercio e finanza. Poi ecco l’occasione: la Russia si apre al mercato libero e scoppia il caos. I più svelti fanno incetta per pochi rubli dei buoni emessi per garantire un minimo “capitale” ai cittadini ridotti sul lastrico. E su questo commercio di titoli e di soldi, si costruiscono immense fortune, si smembrano fino all’osso tutti i settori dell’economia statale e si acquisiscono aziende nevralgiche per cifre ben al di sotto del loro valore effettivo. Khodorkovsky si butta sul petrolio: acquisisce la Jukos, coi suoi sterminati giacimenti in Siberia e in breve tempo diventa uno di magnifici sette oligarchi. Tutto liscio, fino all’arrivo di Putin che, in breve tempo, decide di riaccentrare poteri, telecomunicazioni e settori economici nevralgici. Khodorkovsky, facendo affidamento sul suo enorme capitale, decide la scontro in campo politico aperto. Nel 2003 è l’uomo più ricco di Russia, ma sottovaluta l’avversario e i suoi metodi da vecchio KGB. In poco tempo è imprigionato con l’accusa di frode fiscale e sottoposto a un processo farsa. Resta in carcere fino al 2017 e, da quel momento, è costretto all’esilio a Londra. Dove continua la sua battaglia contro Putin in nome di una svolta democratica della Russia.

Tanti fatti, ovvio. Come al solito, qui si sta sul concreto. Tutto si muove alla perfezione lungo un doppio binario: la ricostruzione di uno scenario storico, economico, politico, e il disegno cubista di un personaggio complesso, a mille dimensioni. Gibney mette in moto la consueta, implacabile macchina di raccolta dati e materiali e si confronta direttamente con Khodorkovskj, uomo a tratti indecifrabile, enigmatico, a metà strada tra un’entità mefistofelica e la santità degli anacoreti. Del resto, il percorso di redenzione è costruito ad arte e la minaccia di morte aleggia nell’aria. Ma nonostante l’evidenza dei grandi nodi narrativi, scopriamo un uomo reale, ben oltre i simboli e l’appiattimento virtuale di una lotta impari, combattuta da una distanza quasi impossibile. È in questo incontro il grande merito del film, che per il resto scorre via veloce, con la solita lucida chiarezza. Gibney si tiene lontano da  ogni questione teorica e, in parte, dalle interpretazioni e dalle valutazioni soggettive. Eppure, stavolta, accenna una discesa in campo, si fa vedere, interviene, interroga… Che sia l’inizio di un cinema più personale, di intervento?

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