#Venezia76 – Ema, di Pablo Larraìn

Un film ambiguo e rischioso, a cui però non possiamo non riconoscere un suo fascino malato. In concorso

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Inizia con un semaforo in fiamme l’ultimo film di Pablo Larraìn. Una donna con un lanciafiamme e un casco si aggira all’alba di una Santiago deserta come un alieno caduto sulla Terra. Poi si passa al balletto, musica elettronica assordante e una compagnia impegnata in una performance sperimentale. Tra queste c’è sempre la bellissima ragazza della prima scena. Si chiama Ema (Mariana Di Girolamo), si mangia ogni primo piano del film e gli sguardi colmi di soggezione e desiderio dei personaggi, tra cui il marito Gastòn (Garcia Bernàl), che è anche il regista della compagnia. Più avanti la vediamo andare da un assistente sociale per avere notizia di Polo, il bambino colombiano che ha adottato insieme a Gastòn e poi ha abbandonato. La donna è disposta a tutto pur di riprendersi il piccolo. Persino a mettere in crisi il rapporto con il marito e spiare la coppia che ora si sta prendendo cura di lui ed entrare nelle loro vite.

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Eccolo il film sbagliato di Pablo Larraìn. Che cosa voleva fare il regista cileno? Un musical psichedelico? Un film sulla crisi di coppia? Un Teorema in salsa punk? L’autore di Neruda sembra confuso, mette insieme tanta materia differente e diversi registri di tono e cromatici. Sembra quasi voler deliberatamente sfasciare la lucidità espressiva – e in certi casi un po’ fredda – che aveva contraddistinto il suo precedente cinema. Forse questo “mostro” camaleontico che è il suo ottavo film è davvero pensato per essere un’opera inclassificabile, una sorta di pastiche delirante e a tratti demenziale (“sei un preservativo umano” dice lei a lui). Orge al neon, balletti underground, numeri da videoclip, personaggi che parlano guardando fissi la macchina da presa come in un film di Jonathan Demme, dialoghi sull’arte e sui sentimenti che paiono un compendio degli hashtag più gettonati nel linguaggio online.

Se Jackie raccontava di una donna capace di fondare attraverso i fatti della Storia un’intero immaginario novecentesco femminile, Ema ne ribalta il segno, raccontando una nuova eroina anarchica, profondamente radicata nella confusione (e nella comunicazione) affettiva, etica e sessuale del nuovo secolo. Ema è davvero un personaggio di illogica e purissima sensorialità. Desidera genuinamente gli altri, ma non se ne innamora. Li usa come pedine per ottenere i suoi scopi, ma anche per sovvertire un ordine sociale che non basta più.

Certo non è semplice empatizzare con i personaggi di un film in cui sembrano tutti vivere, muoversi e parlare come fossero nel bel mezzo di un processo di ipnosi e di assuefazione. Un film ambiguo, quindi. Innegabilmente “brutto”. Come lo vedi o scomponi non sembra funzionare mai. Eppure non possiamo non riconoscergli un fascino malato. Larraìn si infila in un percorso espressivo privo di “precauzioni”, che a modo suo mette in crisi i seguaci del cineasta sudamericano. È infatti un’opera dolente, fragilissima, in cui per la prima volta il regista sembra ammettere una percezione di inadeguatezza, uno scarto profondo nei confronti delle nuove generazioni millennials – nel monologo di Bernàl sul reggaeton si nasconde forse lo smarrito punto di vista dello stesso autore. Se fino a oggi la sua opera rifletteva la rabbia dei figli verso la dittatura dei padri, in Ema gli equilibri si ribaltano e viene fuori il film di un adulto che prova a fatica a intercettare questi figli alienanti, poligami e sordi, che vogliono ottenere tutto e bruciare ogni cosa. Ma è proprio questo il punto: se solo una rivoluzione potrà salvarci… proviamo almeno a capire chi riuscirà a farla!

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