#Venezia76 – Il varco. Incontro con Federico Ferrone, Michele Manzolini e Wu Ming 2
Il varco racconta, con le immagini dei soldati, la campagna in Russia, vista dagli occhi di un anonimo protagonista. Abbiamo incontrato gli autori a #Venezia76
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Come dimostratoci anche dall’ambiziosissimo Martin Eden di Pietro Marcello, sembra che per realizzare il miglior cinema italiano l’uso dell’archivio sia diventato fondamentale. Il varco, il film (documentario?) della coppia Federico Ferrone e Michele Manzolini, per assurdo, sembra voler confermare e smentire allo stesso tempo questo assioma. Realizzato dalla collaborazione dell’Istituto Luce e dell’Archivio Home Movies, il film racconta, attraverso le immagini realizzate dai soldati, la campagna in Russia del 1941, vista dagli occhi di un anonimo (e immaginario) protagonista. Come spiegato dai due registi, già autori di Il treno va a Mosca, il progetto de Il varco “dalla ricerca storica, dai diari conservati presso l’Archivio diaristico di Piave Santo Stefano e dalle immagini. Volevamo trasmettere lo stato d’animo dei soldati, la loro lingua ma soprattutto la cattiveria e la rabbia di quei momenti. Per questo noi siamo partiti dal materiale dei cineamatori.” Federico Ferrone continua a raccontare la genesi e la realizzazione del film: “La ricerca che abbiamo fatto ci ha portato a scoprire vari fondi archivistici realizzati dai soldati in Russia. Molti sono noti, come quelli dell’Istituto Luce, altri completamente inediti, come quelli delle famiglie Franzini e Chierici. Il punto forte è stato usare questo materiale per rompere con il documentario e inventare una storia verosimile, legata alle coordinate storiche. Usare un personaggio nuovo, di finzione, con particolari precisi (ha un passato sporco che lo perseguita dalla sua esperienza in Africa, ha legami famigliari con la Russia) ci ha dato una libertà. Creare questo personaggio pone delle questioni narrative e morali importanti, non tanto quando le immagini raccontano una storia collettiva ma quando si affronta la sua parte intima. Abbiamo utilizzato l’archivio personale di una persona reale per raccontare la vita privata nel nostro protagonista. Fare vedere una donna e definirla la moglie del protagonista quando quella donna è stata la moglie di qualcuno veramente di qualcun’altro è qualcosa di forte”
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Proprio sulla natura ibrida de Il varco, il produttore Claudio Giapponesi, ci tiene a esporsi: “Il varco non è assolutamente un documentario ma è un prodotto che rompe i confini del genere. In un’opera del genere c’è un equilibrio difficile ma mai selvaggio. Non abusiamo dei materiali ma siamo sempre rispettosi degli archivi. E’ stata coraggiosa la scelta di Barbera di invitarci perchè un prodotto così non riesce a entrare in un festival di documentari ma neanche in uno di cinema di finzione. Essere qui ci permette di dimostrare che un Cinema di questo tipo si può e si deve fare.”
Alla luce della straordinarietà de Il varco, sorge spontaneo chiederci che tipo di rapporto si può creare con le famiglie proprietarie dei materiali privati usati. Sempre Giapponesi spiega: “Il nostro film è il punto d’arrivo di un percorso filologico e storico, fatto per anni dentro gli archivi. Con la famiglia Chierici, di cui abbiamo usato l’archivio privato per i flashback famigliari del nostro protagonista, ad esempio, si è creato un rapporto di fiducia. Il nostro percorso di ricerca nasce solo attraverso il lavoro e il rapporto con chi quei film li ha fatti. Questo ci avvicina a queste immagini, le loro immagini, con grande consapevolezza.“
Nel film hanno un piccolo ma fondamentale peso anche le incursioni nell’attualità fatte dagli autori. Michele Manzolini conferma che quella del “contemporaneo è stata una scommessa. Andando a documentarci ci siamo accorti che i luoghi dei combattimenti e delle stragi del ’41 sono gli stessi della prima guerra mondiale e, soprattutto, della guerra attuale tra Ucraina e Russia. Non c’era la volontà di fare un collegamento troppo esplicito all’attualità. Volevamo dire che forse non è casuale che quei nomi ritornano. Dove si è combattuto con grande violenza le ferite non si rimarginano più. Il nostro è un film di fantasmi. dove il protagonista è attraversato da un passato sporco, un presente incerto e un futuro violento, il nostro oggi.“
Per finire, per affrontare il lato politico e storico del film, non abbiamo potuto esimerci dal parlare con Wu Ming 2, sceneggiatore, e da anni impegnato in un doveroso lavoro di debunking storiografico sull’impegno dell’esercito italiano durante il ventennio fascista. “L’uso degli Home Movies e degli archivi privati è un’arma a doppio taglio perchè il rischio di normalizzare il fascismo è concreto. Mostrare la sua quotidianità, però, da un approccio al fascismo diverso, toglie la sua aura di irripetibilità, di qualcosa che non tornerà più. Non è il centro del film ma i materiali privati di quel periodo danno una visione diversa e immersiva di una vita durante il regime. Inoltre il film racconta la campagna in Russia, non la ritirata. Ci fermiamo all’inizio della fine. Anche se non mostrato esplicitamente raccontiamo quello che gli italiani hanno fatto altro insieme ai nazisti. E’ assurdo che ancora oggi quando si parla del nostro esercito durante la seconda guerra mondiale si parla di sfortuna, di eroico esercito, dimenticandoci che così non si fa altro che il tifo per i piani di conquista di Mussolini e Hitler.” E ancora il marchio del “Italiani Brava Gente” a coprire tutto. “E’ difficile parlare all’opinione pubblica del nostro passato fascista di invasori. Solo ultimamente qualcosa si è mosso sul nostro colonialismo in Africa, mentre sugli orrori compiuti dall’esercito italiano nei Balcani e in Grecia ancora c’è pochissima consapevolezza. Sulla campagna in Russia, poi, c’è questo peso della dimensione dell’epopea, della grande odissea degli italiani nel fango e nella neve che diventano vittime. Quando l’italiano può fare la vittima smette di fare i conti con la propria Storia. La retorica della scarpe di cartone ha coperto tutto. E’ vero che erano mal equipaggiati e che morirono a migliaia assiderati ma bisogna ricordare che i commilitoni di quegli uomini,o forse proprio loro, hanno partecipato a massacri e stragi. Raccontare la loro Storia, senza dimenticare i loro atti, non è una contraddizione.”
-------------------------------------------------------------- IL N.14 DELLA RIVISTA DI SENTIERI SELVAGGI
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