#Venezia76 – Pelikanblut, di Katrin Gebbe

Pelikanblut di Katrin Gebbe è un thriller con degli inserti horror inserito nella sezione Orizzonti. Nina Hoss interpreta una madre alle prese con una misteriosa bambina avuta in affidamento

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Il secondo film della regista tedesca Katrin Gebbe è un thriller ibrido con delle punte di genere horror. La protagonista Nina Hoss interpreta Wiebke, madre adottiva di Nina, che decide di prendere in affidamento un’altra bambina da un istituto, Raya. Wiebke gestisce un maneggio dove vengono addestrati i cavalli utilizzati dalla polizia. Quando tutto sembra andare per il meglio, la piccola Raya comincia a manifestare dei sintomi inquietanti di psicosi, a causa di un gravissimo disturbo che le inibisce sentimenti ed empatia. Segue un calvario fatto di violenze gratuite e crudeltà con la cassa di risonanza che a commetterle sia una persona di appena cinque anni. Le conseguenze sono presto dette, Raya paga il suo comportamento attirandosi addosso l’antipatia generale, con l’unica eccezione di Wiebke, disposta ad aiutarla a costo da mettere a repentaglio affetti e lavoro per un’ostinata difesa della bambina.

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Nel 1977 Wim Wenders realizzò per la televisione tedesca due episodi di Ein Haus für uns, che raccontavano delle enormi difficoltà di adattamento per una bimba colpita da malattia mentale ed i relativi problemi in ambito familiare. Più recentemente al centro di un problema analogo c’era Benni, la piccola protagonista di Systemsprenger di Nora Fingscheidt, un modo di raccontare le insormontabili difficoltà di inclusione dentro un sistema educativo messo alla corda. Katrin Gebbe rispetto a questo ultimo esempio sposta l’obiettivo dal pubblico, che occupa una parte simbolicamente residuale, al privato. Il passaggio viene effettuato esplorando il rifiuto di una madre ad accettare la malattia della figlia, tanto da farla dubitare delle conclusioni di uno specialista, per spingerla nelle mani di un guru e ad un approccio antipositivista e spiritualista della faccenda.

La fattoria ai margini del bosco aiuta lo spostamento di segno verso il magico, ma le premesse sono molto deboli, l’incubo razionale di natura traumatica viene dimenticato per rendere evidenti le verità sepolte dietro leggende che risalgono alla notte dei tempi, ma la transizione resta incompleta. La parte migliore resta il bisogno insoddisfatto di una maternità sostitutiva, con la crisi che una volta innestata mette in discussione un ruolo, la sua autorità, i diritti e i doveri. Invece il fantastico, che occupa soprattutto la parte finale, scava un solco netto quasi estraneo, tanto radicale da meritare una trattazione più accurata.

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