#Venezia76 – Sanctorum, di Joshua Gil

Chiude la Settimana della Critica l’opera di Gil che racconta una fetta importante della storia messicana attraverso una rappresentazione fantasmatica e misteriosa della Natura e della sua immanenza

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Un cielo stellato pulsante, il movimento cosmico infinito, l’acqua che vibra, la terra, l’oscurità. Siamo già pienamente calati dentro una dimensione primordiale alla quale sentiamo – intimamente – di appartenere: buia perché uterina, ma anche luminosa, di quel biancore che riconosciamo proprio di ogni nascita o delle manifestazioni epifaniche. Sanctorum. È già tutto racchiuso nel titolo. Fortemente simbolico, misterioso come i poteri della terra ai quali si riferisce, pieno di tutto il senso che solo ciò che è, di per sé, immanente può davvero contenere.

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Ci troviamo nel contesto della desolata campagna messicana, tra le montagne e la nebbia. La città è diventata snodo dell’incessante scontro tra militari e cartelli della droga, mentre la popolazione di campesinos

ridotta in estrema povertà e priva di altre risorse – vive asservita alla coltivazione di marijuana ai fini della mera sopravvivenza. È una fetta importante della storia del Messico quella che Joshua Gil porta in questo lavoro, disseminandone tracce di urgente verità tra i corpi che spariscono nei boschi; nelle violenze continuative alle quali – in molti – non vogliono rassegnarsi; tra i banchi di scuola, dove si insegna alle nuove generazioni il significato del termine “regeneración“. Ma soprattutto, in quei segnali che la natura sembra partorire dal suo cuore cavernoso. Perché, di fatto, Sanctorum prende a prestito la storia di una madre tra tante che sparisce e di un figlio che si inoltra nei boschi per ritrovarla, ma solo per raccontare delle paure – le nostre, universali – e delle speranze del mondo.

Nella ricerca disperata della madre da parte del bambino, riconosciamo dunque la drammatica indagine che l’umano conduce da sempre nella culla del mondo, richiamo alla (propria) presenza e al senso sfuggente delle cose. Ancor più in profondità, la ricerca della madre si configura come percorso di attraversamento – dolente, necessario – della sofferenza provocata dalla perdita, sparizione ultima del corpo.
Lasciando molto indietro il piano dell’umano essere, Gil si spinge oltre, fin ai limiti della rappresentazione “realistica”, facendo un salto nel metafisico dopo La Maldad (2015). L’immagine diventerà stavolta lo spazio fantasmatico ove ritrovare desaparecidos del passato, ombre della Storia incastrate nella virtualità del tempo per poterle liberare. Facendo, infine, di questi corpi dissolti la carne del mondo che si rigenera nel suo movimento incessante. Al suo cinema spetta, dunque, un ruolo di assoluzione Siamo venute per calmare la memoria degli uomini»), di rigenerazione; e alle sue immagini, il posto epifanico del mondo e della sua immanenza.  

 

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