#Venezia76 – State Funeral, di Sergei Loznitsa

Il 5 marzo 1953, ore 21.50, muore Stalin. Ennesimo memorabile flash mob, in cui i funerali di stato si fanno tragedia di una “falsa” storia. Fuori Concorso

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5 marzo 1953, ore 21.50. Dopo alcuni giorni di agonia, muore per una crisi respiratoria, causata da un ictus, Josip Stalin. “Morto Stalin, viva Stalin”. L’Unione Sovietica si ferma per i suoi funerali di Stato. Con filmati d’archivio, in gran parte inediti, Loznitsa mostra l’intera cerimonia della sepoltura, seguita da tutto il Paese, orfano del suo comandante supremo, che l’organo di stampa Pravda descrisse come “Il Grande Addio”. Vengono proposte tutte le fasi del funerale, ad evidenziare il culmine del culto della figura storica, indotta dal terrore e dall’illusione di un regime potente e giusto. È chiara anche la motivazione di tale esperimento a trovare chiavi di lettura sul presente e sull’eredità lasciata dalla natura di tale evento storico. Le parole del regista: “La morte di Stalin ha significato la fine di un’epoca. Senza nemmeno rendersene conto, le milioni di persone che piangevano il leader nel marzo 1953, stavano anche vivendo un’esperienza epocale nelle loro storie personali. È per me fondamentale condurre lo spettatore in questa esperienza non come imparziale osservatore di un evento storico o un cultore di rare riprese d’archivio, bensì come partecipante e testimone di uno spettacolo grandioso, terrificante e grottesco, che rivela l’essenza di un regime tirannico. Considero questo film uno studio visivo sulla natura del culto della personalità di Stalin e un tentativo di smontare il rituale che era parte delle fondamenta del regime sanguinoso. È impensabile che oggi, nella Mosca del 2019, 66 anni dopo la morte di Stalin, migliaia di persone si riuniscano il 5 marzo per deporre fiori e piangerlo. Penso che sia mio dovere di regista sfruttare il potere delle immagini documentaristiche per fare leva sulle menti dei miei contemporanei e cercare la verità”.

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Loznitsa ha trovato il suo ritrovo nella Sala delle Colonne di Mosca, in cui anche Process del 2018 era ambientato, altro documento definitivo sulla tragedia vera e la storia “falsa”. Sempre nella stessa Sala, si compie lo spettacolo commemorativo, cinema puro perché fatto di 24 fotogrammi di illusione al secondo. In fondo, la domanda che tutti si fanno, alla presenza di tali proposte, non è il perché si realizzino, ma perché trovano l’interesse dei festival. Scovare, ripulire e rianimare, sarebbero questi semplicemente i meriti dell’autore? Tutto sarebbe quindi riconducibile al minimo sindacale, se non si riconoscesse, ancora una volta e sempre di più, la necessaria esplorazione dell’archivio, arma ormai oggi imprescindibile, che anima il furore interno di voler riscrivere e rimpastare la storia, attraverso il già acquisito, devastato e inespresso. Eppoi, potremmo star qui a spulciare gli aspetti “innovativi” dell’operazione, come l’uso reiterato e continuo del colore su immagini originali in bianco e nero; la stessa immagine, la stessa inquadratura che si presenta in bianco e nero e si colora senza un’apparente ragione creativa ed espressiva. Ancora, la solennità musicale di Mozart, Schubert e Tchaikovsky aggiunta alle immagini o le uniche tre dissolvenze in nero di tutta l’opera, a scandire il primo, il secondo giorno e la chiosa. Tutto qui? Macché… il cinema di Loznitza scolpisce il tempo, penetra con cadenza aritmica e inesorabile, deborda lo spazio apparentemente pietrificato. È il più magico di tutti. Cerca negli sguardi una falla, un tradimento, un censurabile richiamo, batte contro il muro del popolo, contro i pensieri scorporati dall’anima dello stesso popolo e va alla spasmodica ricerca degli uomini e dell’uomo Stalin, simulacro già da vivo. Senza una memoria vivificante, gli eventi baluginano sul suo sensore, indugiano come immagini residue. Estrarre dalla superficie delle immagini l’impalpabile sedimento d’esperienza di vita, l’urlo paralizzante.

È difficile immaginare come lo spirito umano possa funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza possa manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato, è probabilmente legata intimamente alla scoperta del sacro. La risposta sta nelle prime inquadrature di strade desolate dell’Impero sovietico sotto la neve, che sembra appena svegliarsi e ripartire in tram, in slitta, sui calesse, a piedi sul ghiaccio. La risposta sta nell’immobilità di una potenza mondiale, l’immobilità dei suoi compagni, operai, contadini, burocrati, allo scoppio dei cannoni, al fischio delle ferrovie, al turbinio di mondi stratificati e inconciliabili dalle guerre. Loznitsa si fa voce e occhio dell’umanità aumentata, più che della realtà, in cui poter estendere ogni azione quotidiana, sovrapporre e, non più soltanto virtualmente condividere, il distacco da sé e il mondo. Loznitza ci regala da sempre memorabili flash mob in cui il potere delle immagini innesca azioni insolite, devastanti, maestose, generalmente prive di senso, per poi disperdersi nel vuoto, come quella gabbia con la figura di Stalin, innalzata da una gru, sospesa in aria, traballante e cigolante, che stacca sul nero improvvisamente, ma il cigolio non smette, forse è precipitata o semplicemente marca la futura inutile destalinizzazione.

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