Madeleine Collins, di Antoine Barraud

Un cinema che sa essere di genere ma che pur nel suo più ampio scenario sa guardare al gioco pericoloso che infrange le regole non scritte dell’unità indivisibile. Giornate degli Autori

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La domanda che senza incertezze pone immediatamente il film è quella del chi siamo e, immediatamente dopo quella del valore della nostra identità. Madeleine Collins, che pure avrà molti difetti, è però un film che con chiarezza cristallina mette in scena il tema dell’identità, oggi strumento sempre più mutevole di rappresentazione del sé verso gli altri, indispensabile ma manipolabile nelle relazioni sociali, ma anche documento interiore impossibile da falsificare nel quale si riflette la nostra stessa riconoscibilità quella che ci identifica e che in fondo pretendiamo quali componenti complessi della comunità.
Il meccanismo sembra essere messo in crisi in un mondo sempre più mediaticamente disponibile alla sovrapposizione delle identità, alla moltiplicazione degli avatar pratica che contravviene e viola la piena riconoscibilità di sé in un processo di costante e progressiva mimetizzazione che diventa strumento di vera o presunta libertà di azione dentro i meccanismi e le strutture, a maglie larghe, della vita sempre più virtuale.
In altre parole il film, nella sua lettura più profonda, ci offre la possibilità di confrontarci con gli effetti di una identità oggi variamente manipolabile fino al punto di rottura, quel punto che non appartiene alle strutture esterne del nostro mondo, ma a quelle personali che non possono reggere il peso di una vita falsa e che non ci appartiene.
Judith vive tra la Svizzera e la Francia. In Svizzera, dopo la morte della sorella, con quello che era suo cognato di cui si è innamorata e la figlia piccola, in Francia con Melvil acclamato direttore d’orchestra e due figli adolescenti. La sua vita è frenetica divisa tra queste due realtà così diverse sotto ogni profilo, è solo la differente pettinatura per le due realtà, che ne rimarcano l’alternanza. Il gioco dura da tempo, ma il punto di rottura è vicino ed è tutto annidato dentro la mente di Jude che sembra essere risucchiata dentro un vortice che ella stessa ha creato. Antoine Barraud trova la complicità della avvenente Virginie Efira che nei panni della doppia protagonista, sa muoversi dentro quella indispensabile ambiguità della sua doppia identità.

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Un film dal vago sapore hitchcockiano, laddove il tema della violazione della singola identità diventa tema di indagine della coscienza, tema intimo dell’equilibrio psicologico e disturbante metafora per una più complessiva riconoscibilità a cominciare dalla percezione del sé alterata dallo sdoppiarsi dell’identità. Un cinema che sa essere di genere, ma anche più generalista e a Madeleine Collins va riconosciuto il merito di sapere costruire, dentro lo scenario più ampio di una socialità intaccata dal germe dell’irriconoscibilità, il percorso della sua fragile protagonista vittima consapevole di un gioco estremamente pericoloso che infrange le regole non scritte dell’unità indivisibile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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