#Venezia78 – Oltre la paura

Pur con qualche problema di gestione, è stata una Mostra di ottimo livello. Che ha testimoniato il desiderio e la necessità di una connessione reale, fisica, oltre la bolla

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Anche quest’anno è andata. La 78ª edizione della Mostra di Venezia si è conclusa con la vittoria di L’événement di Audrey Dawn, storia di una giovane donna costretta a ricorrere all’aborto clandestino nella Francia degli anni ’60. Un film duro, forse scomposto, in gran parte retto dall’interpretazione di Anamaria Vartolomei, la spunta su autori più accreditati e su film senz’altro più decisivi (da Martone a Schrader, da Brizé a Vasyanovich). È stato un verdetto unanime, come ha precisato il presidente di giuria Bong Joon-ho, forse figlio di una scelta di “impegno”. Ma è comunque un altro segno della vitalità di un cinema europeo “giovane”, che, tra Berlino, Cannes e la Mostra, porta alla vittoria, in continuità, registi intorno ai quarant’anni. In più, si tratta di un’altra donna, dopo la Julia Ducournau di Titane. E se è vero che non è il caso di fare un discorso di genere, resta il fatto che in questa Venezia vanno a premio tre delle cinque registe in concorso. Oltre a Audrey Diwan, Jane Campion, che ottiene il Leone d’Argento per la miglior regia con The Power of the Dog, e Maggie Gyllenhall, per la miglior sceneggiatura a The Lost Daughter, trasposizione piuttosto contorta, in verità, di un racconto di Elena Ferrante. Ma al di là di questo dato, si sa che i premi sono relativi. Il punto fondamentale è che si è trattata di un’ottima edizione, per la qualità media delle proposte. Non solo per quanto riguarda la selezione ufficiale, concorso, fuori concorso e Orizzonti, ma anche per le sezioni collaterali, la Settimana della Critica (che si conferma come il percorso più politico della Mostra) e le Giornate degli Autori.

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Diverso è il discorso sull’organizzazione dell’evento. Soprattutto i primi giorni, si sono riscontrate numerose difficoltà nel sistema di prenotazione on line dei posti e nella gestione degli accessi all’area festival, con le lungaggini dei controlli di sicurezza e delle misurazioni di temperatura. Prima del via, ci si chiedeva come sarebbe stata questa Venezia 2021, dopo l’edizione sperimentale dello scorso anno, nella breve parentesi di respiro concessa dalla pandemia. E, in effetti, l’apertura a un numero di accrediti regolare, quasi da tempi pre-Covid, è andata in corto circuito con la capienza dimezzata delle sale. Il sistema Boxol ha mostrato subito la corda, tra tempi di attesa e proiezioni immediatamente esaurite. La stampa periodica in difficoltà, gli accrediti culturali allo sbando, lamentele, nervosismo… È chiaro che si tratta di un problema contingente, che si spera possa essere risolto con il ritorno a pieno regime delle sale e con alcuni aggiustamenti nella piattaforma (una pecca tra le altre, la possibilità di prenotare più film allo stesso orario…). Per un attimo, però, è sembrato di rivivere le difficoltà logistiche di alcune edizioni passate, in cui gli spazi del Lido avevano mostrato tutti i propri limiti: niente di tragico, ma un segnale per il futuro. Per il resto, gioco forza, la Mostra ha evidenziato ancor più il suo splendido isolamento rispetto al resto della città e ha penalizzato la sua costola più avanzata, quella della Virtual Reality, ritornata a un frammento infinitesimale del programma complessivo.

Ma al di là di questo, dicevamo, la differenza l’hanno fatta i film. A cominciare dall’evento per eccellenza, l’anteprima di Dune di Denis Villeneuve, prima parte della nuova trasposizione del mondo fantascientifico creato da Frank Herbert. Un film visivamente sontuoso, dalle scenografie mastodontiche e gli effetti speciali imponenti, ma che cerca, al tempo stesso, di dare concretezza, dei corpi, dei sogni, delle visioni dei personaggi. Meno azzardato rispetto al precedente Blade Runner 2049, Dune sembra un capitolo quanto meno interlocutorio, prima pietra di una costruzione futuribile, che ha bisogno del respiro lento e ampio dell’epica. E occorrerà capire se Villeneuve sarà disposto a continuare l’opera. Sempre fuori concorso, Last Night in Soho è l’ennesimo, libero, attraversamento dei generi di Edgar Wright, una commedia musicale che volge verso l’efferatezza dell’horror, tra canzoni degli anni ’60, immedesimazioni e sdoppiamenti. Mentre The Last Duel di Ridley Scott, scritto da Matt Damon e Ben Affleck (e Nicole Holofcener), è la storia di uno stupro avvenuto nella Francia del XIV secolo: tra questione femminile, complessa orchestrazione dei punti di vista del racconto e la muscolarità dell’azione che viene fuori nel finale.

In concorso, invece, in grande spolvero è apparso, innanzitutto, Pedro Almodóvar, il cui Madres paralelas è valso a Penélope Cruz la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. Ma da citare sono le illusioni perdute di Giannoli, gli eccessi e le traiettorie di On the Job: The Missing Eight di Erik Matti, una delle visioni più scoppiettanti di questa Venezia, tre ore e mezza di azione e frenesia (Coppa Volpi a sorpresa per il protagonista John Arcilla). E poi lo straordinario Reflection di Valentyn Vasyanovych, con i suoi quadri senza profondità, impassibile, eppure dolorosa, osservazione delle atrocità e desolazioni del conflitto tra Ucraina e Russia. Ancora, Un autre monde di Stéphane Brizé, la guerra del lavoro vista stavolta dalla parte degli imprenditori, con un immenso Vincent Lindon, ormai capace di recitare con i silenzi e gli sguardi come, forse, solo Jean Gabin. E The Card Counter di Paul Schrader, ennesimo viaggio di espiazione e redenzione, partita a poker con l’anima, con Oscar Isaac nei panni di un ex torturatore di Abu Grahib.

Ma anche nelle altre sezioni, non sono mancate le visioni da ricordare. In Orizzonti, Miracle di Bogdan George Apetri, Inu-oh di Masaaki Yuasa, Once Upon a Time in Calcutta di Aditya Vikram Sengupta, El gran movimiento di Kiro Russo. Alle Giornate degli Autori, Madeleine Collins di Antoine Barraud, Shen Kong di Chen Guan, alla SIC, Eles trasportan a Morte di Helena Girón e Samuel M. Delgado, Zalava di Arsalan Amiri, Mother Load di Matteo Tortona.

Qui si apre, naturalmente, il discorso sul cinema italiano, del cui stato di salute Venezia è, come al solito, la più importante cartina di tornasole. Sparsi qua e là, tanti film da segnalare. Tra gli altri, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, Atlantide di Yuri Ancarani, Californie di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. Della nutrita schiera di film italiani in concorso (ben cinque), due entrano nel palmarès. Il Premio Speciale della Giuria va a Il buco di Michelangelo Frammartino e due riconoscimenti vanno a È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino: il Premio Mastroianni al miglior attore emergente, per il protagonista Filippo Scotti, e il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Nel primo caso, si è assegnato un tributo a uno dei film più “impegnativi” e austeri della competizione, a metà tra l’osservazione e la ricostruzione, tra la contemplazione estatica e la razionalità della costruzione. Una specie di opera-impresa, quella di Frammartino, che si avventura nelle oscurità dell’Abisso del Bifurto, una delle grotte più profonde della Terra, ma che non sembra del tutto risolta, sospesa com’è tra una certa programmaticità e una fragilità estrema. E forse è proprio questa fragilità ad aver convinto la giuria a una “spinta”. Diverso è il caso di Sorrentino, entrato in gara con tutto il peso della sua carriera (l’Oscar avrà avuto un’influenza per il “compagno” Bong Joon-ho?). Sebbene È stata la mano di Dio sia uno dei suoi film più sinceri e meno esibizionisti, qui sembrano contare anche questioni di natura politica, a conferma del ruolo sempre più rilevante che Netflix ha nella strategia di Barbera. E, in questa direzione, va anche il Leone d’Argento per la miglior regia, un po’ forzato, a Jane Campion.

Ma soprattutto, tra gli italiani, resta fuori Qui rido io di Mario Martone, una delle visioni più straordinarie di questa edizione, vertigine tra l’immagine, il palco, la vita, tra la storia e il presente, l’estro dell’improvvisazione e il rigore della riflessione. Uno spettacolo senza soluzione di continuità, che è uno degli sguardi più vivi e una delle esperienze più esaltanti di Venezia 78. È con questo film che la Mostra tocca il suo culmine. Poi, oltre i film, resta la condivisione. Se qualche mese fa, ci chiedevamo quale futuro avrebbero avuto i festival dopo la sospensione della pandemia, se la fruizione streaming avrebbe definitivamente preso il sopravvento, questa Venezia ci racconta un’altra storia. La voglia e la necessità di una connessione reale, fisica, oltre la bolla. Oltre la paura e la solitudine.

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