#Venezia79 – Un nemico invisibile. Intervista ai registi Riccardo Campagna e Federico Savonitto

I due registi ci hanno raccontato in esclusiva la genesi e lo sviluppo del loro documentario “Un nemico invisibile”, presentato alla Mostra di Venezia 79 all’interno delle Giornate degli Autori

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Il caso di cronaca di Riccardo Rasman, assassinato tra le mure della sua abitazione da alcuni agenti di polizia, è il punto di partenza per il documentario dei registi Riccardo Campagna e Federico Savonitto. Un nemico invisibile è stato presentato in anteprima alle Giornate degli autori della 79° edizione della Mostra del cinema di Venezia.

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Protagonista assoluta della vicenda, è la famiglia di Riccardo, che dopo anni, non si è stancata di ricercare la verità sulla sua morte. I due registi ci hanno raccontato il processo di genesi dell’opera e il suo conseguente sviluppo. “La tv informa, il cinema cerca di emozionare.”

 

Partiamo dalla genesi del film, come siete entrati in contatto con la storia di Riccardo e della sua famiglia e cosa vi ha spinto a sceglierla per il vostro film?

Noi siamo sensibili al tema degli abusi di potere, però, l’incontro con loro è stato abbastanza fortuito. Abbiamo deciso di incontrarli non appena c’è stata la possibilità perché abbiamo percepito una forte volontà da parte di Giuliana (la sorella di Riccardo) di raccontare la storia del fratello e noi, in quanto documentaristi, ci siamo subito interessati. Dal primo momento abbiamo capito che potevamo svolgere un lavoro che toccasse più punti, realizzando un film non solo su un tema civile molto forte. Ci siamo resi conto che potevamo anche fare “filosofia”.  Dentro questo film abbiamo inserito temi decisamente più ampi, non solo quella forma di respinta emotiva, di repulsione che può avere un’ingiustizia di questo genere.

 

Nel corso dell’opera, la ricerca della verità da parte di Giuliana e i suoi genitori si intreccia alla vita di tutti i giorni, fatta di lavoro nel proprio terreno, che diventa il principale protagonista della vicenda. Cosa vi ha spinto ad integrare nel racconto la quotidianità di questa famiglia?

È stato un percorso molto naturale devo dire, userei proprio la metafora arborea in questo senso perché li abbiamo visti un po’ come degli alberi trapiantati, immaginando l’albero come metafora della famiglia Rasman trapiantata dall’Istria a Trieste. Quindi una famiglia molto attaccata all’idea di radici, che nel loro caso sono quelle rurali di un mondo che sta scomparendo. Noi abbiamo voluto raccontare la storia di una realtà che resiste, che vive in modo se vogliamo anacronistico. Eppure, questa famiglia così legata alle proprie radici, nutre un albero che purtroppo non potrà più dare germogli perché, con la scomparsa di Riccardo, l’albero genealogico non potrà più proseguire le proprie ramificazioni. Il film, in questo senso è un canto dolente di un mondo che va scomparendo in cui la campagna rappresenta anche l’idea di una bellezza che loro coltivano.

 

Avete citato prima l’esilio della famiglia Rasman dall’Istria a Trieste, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. La famiglia di Riccardo ha sofferto per gran parte della sua vita e in una scena decisamente commuovente la madre, in lacrime, si chiede perché, dopo una vita di sofferenze, le abbiano anche ammazzato il figlio. Che cosa ha significato per voi vivere per quattro anni accanto a queste persone alla ricerca di un senso nella vita e nelle piccole cose?

I Rasman sono delle persone fantastiche, purtroppo Duillio (il padre di Riccardo)  è venuto a mancare l’anno scorso e questa cosa ci addolora molto anche perché questo film è, a tutti gli effetti, un’avventura collettiva che speravamo di portare a compimento tutti insieme, tutti e cinque insieme. Purtroppo alla fine di questa storia siamo rimasti in quattro… Per quanto riguarda la quotidianità che abbiamo condiviso con loro, abbiamo anche imparato a conoscere i codici dei valori di un mondo che non ci apparteneva, non più comune già dai tempi in cui Pasolini ne denunciava la sparizione. Col tempo, siamo diventati amici di Giuliana, di Duilio e Mariuccia che per noi sono stati come dei terzi nonni, anche se poi questa si è rivelata una difficoltà per il film, in quanto bisogna trovare una giusta distanza per il racconto. Quindi, abbiamo lavorato molto su questa distanza ed entrambi pensiamo che il film benefici di un rapporto in cui ci sia distanza ma anche molta stima reciproca. Loro si sono dati del tutto a noi che risultiamo invisibili nel racconto, anche se l’invisibilità di Zavattini, in fin dei conti, non esiste.

 

Nel film si intravede un programma televisivo che accenna in fretta e furia la vicenda, il conduttore invita i familiari di Riccardo a velocizzare il proprio racconto perché deve andare in pubblicità. Una scena di grande tristezza, specchio di tante altre vicende di cronaca nera inglobate nel grottesco racconto dei media italiani, quanto è diverso il vostro approccio e l’approccio cinematografico, in generale, rispetto a quello televisivo?

La prima cosa che abbiamo capito quando abbiamo ascoltato la loro storia è che volevamo raccontarla attraverso il linguaggio del cinema e non in modo reportagistico. Volevamo rappresentare ciò che resta dopo le news e, di conseguenza abbiamo cercato di realizzare un lavoro proprio su questo. La Televisione è stata sempre al centro della nostra riflessione sul loro mondo, in modo anche più netto di come poi è diventato nel progetto finale che si compone di molte più sfaccettature e sfumature. Ma all’inizio, l’idea era proprio quella di creare una un’ambivalenza del loro mondo, tra la campagna e l’interno del salotto. Quest’ultimo era il loro rapportarsi all’esterno attraverso la tv. Quindi la nostra riflessione era su come spesso la Tv affronta le cose con un “mordi e fuggi”, senza curarsi troppo delle persone in carne ed ossa che stanno vivendo sulla loro pelle un trauma, un dramma. I media, in queste situazioni, trovano qualcosa da dare in pasto al pubblico senza pensare troppo a chi c’è lì davanti, quali sono i suoi sentimenti. Noi abbiamo voluto entrare nei sentimenti di queste persone e cercare anche di creare in chi guarderà il film un processo di catarsi, di immersione per far vivere le emozioni, più che dare informazioni. In sintesi, la differenza fra tv e cinema forse questa: la tv informa, il cinema cerca di emozionare.

 

Per chiudere, dopo Venezia quale sarà il percorso del vostro film?

Abbiamo un distributore: Lo Scrittoio. Dopo un percorso nei Festival vorrebbe portarci in sala. Magari ci sarà un percorso nelle sale, probabilmente ad eventi. Però, speriamo di girare almeno in Italia e nei cinema, ci sono anche dei broadcaster interessati. Infine, ovviamente, vogliamo far parlare il più possibile di questo caso di cronaca.

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