Venezia 81 – Volontè – L’uomo dai mille volti. Incontro col regista Francesco Zippel
Abbiamo incontrato il regista che ci ha raccontato il suo ultimo documentario, in anteprima al festival e dal 23 settembre nelle sale
Durante l’incontro stampa di questa mattina, il regista Francesco Zippel ci ha parlato del suo ultimo documentario dedicato a Gian Maria Volonté, in occasione del trentennale della morte dell’attore.
Che criterio ha adoperato per la selezione dell’archivio?
L’archivio è molto importante quando si fa un lavoro del genere perché ti può innanzitutto aiutare, da una parte, a capire e comprendere meglio il tempo in cui un artista è vissuto, oltretutto uno così fortemente connesso con il proprio tempo e così esposto politicamente. Ci sono continui contatti con il mondo della politica. E dall’altra, nel caso specifico dell’archivio RAI, andare a conoscere, ad apprezzare tutto un mondo di interpretazioni che per molti, per me in primis, hanno un carattere di totale inedito. Quando ho visto L’idiota, ho visto Michelangelo o Caravaggio, ho detto “Ah, avrà avuto vent’anni ma era già un attore con una propria cifra“. Tra l’altro era accanto a questi colossi del teatro di una volta, Tofano, Albertazzi, tutti i grandi attori di quell’epoca e c’era questa specie di animale raro, diverso da loro, che si muoveva. Quindi il lavoro sugli archivi è stato proprio indirizzato in questa direzione, cercare di andare a ricostruire il contesto storico, sociale, cercare di andare a catturare dei caratteri inediti della sua produzione d’artista e poi anche incontrarsi con delle cose veramente, veramente sorprendenti. Ho cercato di aprire l’indagine d’archivio a 360 gradi e sono felice di quello che siamo riusciti a trovare.
Come si muove all’inizio quando deve affrontare un personaggio, cosa cerca come chiave?
Io dico sempre ogni volta che faccio una biografia “Adesso faccio una cosa completamente diversa“, invece…Il racconto di questi grandi personaggi che possono essere incredibilmente illustri oppure poco noti, come Oscar Micheaux. Mi interessa cercare di capire qualcosa di fondamentale dell’aspetto umano, personale, di tutte queste persone. Volontè, questo trauma iniziale legato alla figura del padre, è stato un po’ il motore, la ferita che lui non ha mai voluto rimarginare, che l’ha portato a realizzare, a offrirci tante di quelle interpretazioni uniche, sofferte, vere, intense, che però attingevano a quel pozzo di sofferenza che lui ha sempre tenuto lì a disposizione.
Tra i vari elementi che tornano nel documentario ci sono due aspetti ricorrenti: da un lato c’è il metodo, cioè come si preparava, e dall’altro c’è l’etica, cioè perché decideva di prepararsi. Secondo lei qual è l’eredità che vede o non vede oggi di questi due aspetti nel cinema italiano?
Io penso che il talento sia qualcosa che si ha o non si ha, è proprio una cosa innata. Faccio sempre un parallelismo tra arte e sport: tu vedi quelle persone che sono straordinariamente dotate, però poi devono anche saperlo esercitare, devono saperlo mettere a sistema in qualche misura. Lui aveva trovato un suo metodo, che come dice Jean Gili, lo storico francese, nel documentario lo fa somigliare tanto alla scuola dell’Actor Studio, per certi versi, perché lui si tuffava in queste avventure di interprete con un’energia, con una totalizzante focalizzazione che penso, per chi fa oggi questo mestiere, possano risultare un riferimento non ineludibile, ma straordinariamente utile. L’altro giorno ho visto il film di D’Amelio: sono molto, molto, molto ammirato di come Alessandro Borghi abbia saputo tanto crescere in questi anni come attore. Magari non ha il talento di base di Gian Maria Volonté, però, se vediamo dalle prime cose che ha fatto a quello che fa oggi, veramente ha saputo bilanciare quello che è il suo talento e ha saputo coltivare la propria ambizione e la propria capacità di migliorarsi come attore. E questo vale per lui, vale per Luca Marinelli, vale per Fabrizio Gifuni, Toni Servillo, ma possiamo parlare anche di attrici, c’è Valeria Golino, ma anche un’attrice che trovo straordinaria, Barbara Ronchi, pur essendo completamente diversa, però comunque la vedi costantemente in ricerca, ha talento, ha attitudine, ha metodo.
E rispetto l’etica?
Quelli erano sicuramente anni molto diversi, come si dice oggi. C’è quasi uno sguardo nostalgico alla fine del documentario. Erano tempi diversamente complicati, in cui però un certo tipo di scelte e un certo tipo di racconto della società andavano molto più facilmente in linea con quello che era il temperamento e l’attitudine etica di un artista. Anche adesso viviamo tempi non semplici, però abbiamo comunque la possibilità di relazionarci ad una politica che non è fatta di ideali, non è fatta di adesione a qualcosa. Possiamo aderire a una tematica, il clima, i diritti, eccetera. Lì c’era un comparto di questioni che ciascun partito, da parte sua, rappresentava, che andavano molto più in risonanza con quella che era l’etica dell’artista in questione. Adesso è più difficile per un artista, ed è anche più ammirevole come riescano a portare avanti un discorso in cui c’entra anche questo aspetto. Volonté, per questioni personali, tempi, società che lui ha vissuto, era tutto più naturale.
Se non fosse morto così giovane, avrebbe trovato un suo spazio, come quello che aveva in quel momento, oppure avrebbe faticato?
Penso che lui avrebbe sicuramente avuto difficoltà. Tra l’89, la caduta del muro e il ’94, la prima affermazione di Berlusconi, a livello politico, salta tutto, no? Avrebbe avuto grande difficoltà ad orientarsi, però da grande artista ipersensibile, avrebbe trovato sicuramente delle chiavi di racconto della società che andava vivendo, molto, molto suggestive, molto interessanti. Sono convinto che avrebbe trovato modo di raccontare anche figure della nostra contemporaneità.