Venus, di Jaume Balagueró

L’autore spagnolo torna a un cinema al femminile che diventa materia in continua trasformazione, per un mashup che funziona quando abbraccia fino in fondo la propria inverosimiglianza. Crazies.

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Nel proverbiale e personalissimo cassetto dei sogni, Jaume Balagueró ha il progetto di un film sulla fine del mondo. Qualsiasi riflessione su questo Venus potrebbe dunque partire proprio da questo elemento, da una fine che poi è anche il principio. Per la sua protagonista che fugge con una partita di ecstasy sperando di riscattarsi dal semplice lavoro di go-go dancer in discoteca, salvo poi rinascere a eroina contro gli scagnozzi che nel frattempo il boss le inviato contro. E un po’ naturalmente anche per il cinema stesso dell’autore spagnolo, qui sottoposto a varie torsioni che sono anche un recap del percorso compiuto dai culti maligni di Nameless all’action di Way Down, passando naturalmente per il condominio crocevia del destino alla Rec.

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Sin dal titolo, in fondo, Venus tiene insieme tre direttrici: innanzitutto quella di un cinema fieramente al femminile, qui incarnato dall’attrice e modella Ester Exposito, fisico statuario che si dimena in pedana nella sequenza d’apertura in discoteca. Un corpo progressivamente rimodellato attraverso un calvario che affonda lame e punti di sutura nelle sue carni fino alla rinascita finale – quasi una reminiscenza della magnifica Matilda Lutz di Revenge. Che il personaggio della “sua” Lucia voglia porsi quale icona che trascende la sua semplice bellezza per diventare materia in trasformazione è esplicitato anche dal rapporto di sovrapposizione/confusione con la sorella Rocio e con la nipotina Alba, in un balletto dei ruoli tanto confuso quanto vertiginoso e reiterato implacabilmente fino alla fine.

C’è poi il livello prettamente soprannaturale, dato dalla congrega che occupa il palazzo dove si svolge la vicenda, a metà strada fra Rosemary’s Baby di Polanski e Le streghe di Salem di Rob Zombie. Un ambito utile a tenere insieme tanto le ossessioni stregonesco-demoniache del Balagueró pensiero, quanto a permettere la transizione dal versante noir della prima parte a quello puramente fantastico della seconda. Ma soprattutto, la scelta favorisce la singolare mutazione del film da serio dramma in interni a sfrenato mashup di situazioni che funziona maggiormente proprio quando decide di accettare fino in fondo la propria inverosimiglianza, scivolando nei territori dell’auto-parodia (che poi è il modo migliore per fare sul serio).

Il che naturalmente ci conduce al terzo livello, quello cosmico rappresentato dal corpo celeste comparso nel sistema solare e che determinerà l’eclissi necessaria a compiere il rito e la transizione di Lucia da donzella in fuga a guerriera in grado di decidere chi vive e chi muore. Come in un film sulla fine del mondo, appunto, che Balagueró conduce con piglio al solito sinfonico ma anche sottilmente divertito, con una presenza del sangue copiosamente barocca. Si vede in questo senso anche la mano del produttore Álex de la Iglesia e allora questa fine che è anche un principio, forse non mira soltanto a rimettere in fila i pezzi dell’immaginario di Balagueró stesso, ma anche quelli di un po’ tutto il fantastico spagnolo degli ultimi lustri. Sarà interessante capire se sarà in grado di seminare come i precedenti lavori dell’autore hanno fatto negli anni.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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