Vermin, di Sébastien Vaniček
Un horror d’assalto tra i palazzoni delle banlieue, che sprigiona una grande energia e un efficace senso della tensione. VENEZIA80. Film di chiusura della Settimana della Critica.

Se c’è una cosa che il mondo intero ha imparato in questi ultimi anni, è che quando è in corso un’infezione di massa allora bisogna mantenere le distanze, e rinchiudersi in casa. In questo palazzone in piena banlieue una razza letale di ragni ha preso possesso di ogni anfratto, attaccando i condomini fino ad ucciderli, depositando le uova all’interno dei corpi umani e ingrandendo così progressivamente le proprie dimensioni, fino a divenire dei bei ragnoni giganti spaventosi. E allora l’edificio viene messo in quarantena, le forze di polizia controllano che nessuno varchi la soglia, le porte di ogni appartamento devono restare chiuse. Ma Kaleb, sua sorella e i suoi amici sono abituati a prendersi cura della loro comunità di periferia, e danno avvio alla disinfestazione violando il lockdown: ovviamente, quella pandemica è solo una delle chiavi di lettura di questo horror d’assalto, con il quale Vaniček tenta l’ibridazione tra le storie d’orrore con le bestie impazzite e il mood da guerriglia di quartiere francese, hip hop a tutto volume, guardie violente e bastarde, miscugli esplosivi di lingue, facce e generazioni che si sovrappongono. Insomma tra Richet e Balaguerò, tra Ladj Ly e Aracnofobia.
I ragni vengono fuori dalle pareti di una palazzina disastrata e cadente, destinata ad essere rasa al suolo (a partire dall’appartamento dei due fratelli protagonisti, lasciato loro dalla madre morta) e sostituita da tutt’altro tipo di abitazioni, una gentrificazione forzata che trova un preciso corrispettivo nelle ragnatele, nei bozzoli e nei nidi che in un attimo ricoprono ogni angolo e ogni anfratto delle case, e da cui appaiono moltiplicandosi a dismisura i terribili ottozampe. Non a caso, il primo esemplare di creatura infestante, ancora di dimensioni contenute, scappa nascondendosi dentro una scatola di Nike di contrabbando, che passa di mano in mano.
Vaniček dà prova di una certa inventiva nelle situazioni di pericolo, e di una gestione efficacissima del senso di tensione claustrofobica (ascensori, parcheggi, corridoi, cantine, cubicoli di bagni): gli vengono sicuramente a supporto i modelli di riferimento, sopra a tutti la saga di Alien di cui i primi due capitoli sono letteralmente citati in almeno un paio di occasioni e trovate – la cifra più inedita è però l’incredibile energia che sprigiona dal giovanissimo cast, in grado di muoversi come un’unica appassionata creatura (a quante zampe?) sia nei litigi logorroici (quasi kechichiani…) che nelle fughe o nei contrattacchi.
Vermin si insinua così tra la luce e il buio, costruisce il meccanismo della paura sull’intermittenza tra fuoco e oscurità, disegnando una galleria di personaggi sorprendentemente ampia alle prese con un nemico ancestrale che si fa anticipare dall’inquietante suono delle zampette in movimento, quasi più spaventoso della visione poi effettiva dei mostruosi esserini.