Versi. milkmo(M)on di Carlo Michele Schirinzi e 米 (Mì) di Francesco Clerici

Dal seno lunare di Carlo Michele Schirinzi ai campi lombardi di riso di Francesco Clerici, due cortometraggi tra cielo e terra visti nel 2020 al Laceno d’oro e al Lago Film Festival

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milkmo(M)on

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E tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia

milkmo(M)on è un bagno di luce lunare e un attingere al latte del seno del cielo. E il cinema di Schirinzi ancora una volta, un rapporto ininterrotto fra immagini, corpi e finitudine. Una pratica cinematografica rigorosamente fisica prima che mentale; il riconoscimento dell’immagine come corpo su cui operare, distorcendolo, deformandolo in un movimento quasi amoroso e quindi, bataillanamente mortifero. E se spesso le luci di Schirinzi rimandano al sadismo dei tramonti, in milkmo(M)on siamo affidati allo splendore della luna, astro in continua pulsione luminosa. Una donna, Rita madre del regista, trasmigra nella luna o forse è da sempre la luna stessa, un volto tondo, argentato e craterico, luminoso nel buio… nulla ci vieta di pensare che sia lei stessa ad illuminare l’oscurità del mare, a rischiarare le tenebre saline. D’altronde la luna è donna e il corpo femminile da sempre condannato alla licantropia, al raccordo col secolare morire e rinascere di quell’astro che mai si spegne. La luna è anche strega, o comunque dalle streghe sempre omaggiata, e se nel primo movimento di milkmo(M)on è suggerita nel riflesso, eccola che ci appare nel secondo: alta, bella al punto da essere sconcertante nella sua magica staticità, e quindi fissabile in video solo nell’interferenza. Schirinzi ci mostra come una specie di incantesimo, e probabilmente è sotto incantesimo anche lui (cos’altro è l’amore filiale…), affascinato dalla fusione del corpo materno sull’astro, da questo silenzioso passaggio. E in quello che a tratti sembra un gioco o una sinfonia senza musica, ecco la luna distorta, saltellante, ballerina. Sembra a tratti strizzarci l’occhio, gioiosa. O forse è nebulosa e tremula per il pianto che sorge sul ciglio di chi la riprende; e ancora, viene toccata, alterata dalla mano o magari dolcemente accolta sul palmo. Fra i bianchi e i neri di luce e di buio, milkmo(M)on è ancora il canto dell’inevitabile unione fra i corpi, fusi anche quando staccati. E il richiamo della luna a se stessa…Una fascinazione ardente che le immagini, condannate a morire nel mostrarsi, sono ancora una volta l’unico modo per descrivere.

米 (Mî)

In lucidi specchi
tra volti di nuvole bianche
si celano i grani
del riso

                             

(riso in cinese), si apre con la luce dell’alba in crescendo, al risveglio della Cascina Battivacco, Milano. Wai Chi, Tai Mi e Exhi Xi, si avviano verso la risaia lombarda per mondare il riso. Francesco Clerici, con la sua consueta gentilezza nel riprendere, segue con curiosità bambina e dovizia da studioso tre personaggi che mondano il riso. Solcano armati di falcetto i terreni pianureggianti, sotto il sole e i suoi capricciosi cambi di luce. Quello di Clerici è ancora una volta un documentare attento e silenzioso, mai impersonale o sterile, piuttosto sempre fecondo nel ricercare ciò che si nasconde dietro ai gesti. Gesti aperti  in molteplici rimandi, che il regista scova con la tangibile discrezione delle sue immagini, restituendoci fugaci impressioni, attimi che raccolgono piccole porzioni di mondi. C’è un momento, poco prima di arrivare alla risaia, in cui il ritmo cambia per pochi secondi, l’immagine rallenta… il regista si sofferma sul copricapo sulla testa di una mondina mentre oscilla al vento. È nello scritto L’origine dell’opera d’arte, che Martin Heidegger parla di un famoso quadro di Van Gogh, “Vecchie scarpe con lacci”. Un’opera d’arte che è tale non perché imita alla perfezione un paio di scarpe ma perché capace di rimandare ad altro: la terra, la povertà, il duro lavoro del contadino. Per il filosofo tedesco le scarpe di Van Gogh emergono perché isolate dal mero utilizzo, ma ecco, questo sembra fare Clerici ogni qual volta indaga e inquadra gesti e oggetti: non si limita a imitare con la macchina da presa, ma dis-vela testardamente storie e situazioni. E in 米Mì, lo avvertiamo soprattutto nel raccordo fra il lavoro del riso con immagini altre, come le riprese delle pozze, lucidi specchi, o il soffermarsi sul passaggio dei treni che sovrastano i campi. Ci par d’essere di fronte ad un quadro impressionista, in cui Clerici lungi da rimanere attaccato alla mera immagine, riesce a portarci su ciò che si cela.

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