VIAGGIO IN ITALIA – La materia e il corpo: Carlo Michele Schirinzi
Autore di una potente sperimentazione visiva-sonora lavora sulle immagini, ridefinendole e riplasmandole attraverso un’opera in cui si rintracciano insieme residui non solo cinematografici
C’è un processo di consapevole creazione artistica dentro l’opera di Carlo Michele Schirinzi. Lo sguardo cinematografico è forte e riconoscibile, ma costituisce soltanto una parte di esso. Le immagini-video appaiono infatti il risultato finale di una materia continuamente lavorata, rimaneggiata e plasmata, che appare mutevole nella sua forma. Sono infatti presenti residui provenienti dalla pittura, dalla fotografia, e in cui la disposizione scenografica tende a spogliare lo spazio che utilizza frequentemente gli interni e che attua quasi un’estetica della decadenza dove gli stessi oggetti appaiono quasi segni-residui del passato, in cui si rintraccia – come dice lo stesso artista nell’intervista – un’attrazione per il vissuto, per le rovine. Ciò può essere visibile, per esempio, in uno dei suoi lavori più forti, Macerie dell’arcobaleno (2004), corto che filma le macerie di ciò che resta dell’ex-cinema Arcobaleno di Alessano e dove la consistenza dello spazio è progressivamente sgretolato da fasci di luce, apparizioni in cui è come se si rimaterializzasse il passato. Anche nello stesso Palpebra su pietra (2006), l’illuminazione accecante e la sfocatura puntano dettagli del centro storico di Lecce facendo(ci) penetrare dentro una dimensione quasi sognante, dove la visione diventa intenzionalmente evanescente e la pellicola sembra polverizzarsi sotto i nostri stessi occhi. Oppure in Il nido (2003), episodio del film collettivo A Levante, per il quale ha ottenuto una menzione speciale al 21° Torino Film Festival, nella sezione “Spazio Italia”. Qui già le due figure dei protagonisti, una ragazza e un ragazzo cleptomane, sembrano quasi delle apparizioni, dei corpi-zombi che si muovono già come entità astratte, dislocate da uno spazio-tempo che le contiene a fatica.
Conversazione con Carlo Michele Schirinzi
Nei tuoi lavori c’è una predominanza di interni, caratterizzati da una risonanza non dico autobiografica, ma biografica: sono degli interni “porosi”, che trasudano qualcosa e raccontano una storia.
Non so se è una mia suggestione in quanto uomo del Sud, ma quando parlo di interni e dico che sono auto/biografici, mi riferisco anche al fatto che ci sento dentro una pregnanza del Sud, del Salento, ci riconosco un odore che è quello proprio di luoghi chiusi, occupati da molti oggetti, da una dimensione domestico-quotidiana un po’ asfissiante. È chiaramente un grande lavoro di ricerca quello che fai…
Mi colpisce quello che dici perché agisco per sottrazione sull’impianto scenografico, in molti lavori ho eliminato il superfluo e gli ostacoli visivi a favore del disegno prospettico: Dé-tail ne è un esempio, soprattutto la scena finale dell’annunciazione mancata ispirata all’astratta sacralità delle annunciazioni del Convento di San Marco del Beato Angelico. Ripensandoci però, la tua affermazione è esatta perché è il concetto di “pieno/vuoto” che m’interessa, l’aggiungere per sottrarre: il video digitale infatti è distruzione dell’identità di ciò che è filmato, è ricostruzione totale di qualcosa, diretto erede del “Ceci n’est pas une pipe” di Magritte. Potando tutto ciò che suggerisce un’immagine stereotipata, restano solo i muri e le pietre che non sono pelle ma l’anima pulsante del Sud, e la porosità dello schermo, sgranato dal montaggio in macchina in Dé-tail, riporta proprio alla terra. L’autobiografismo dei luoghi chiusi è legato alla diffidenza verso la natura. Ne Il nido, cortometraggio commissionato dalla Provincia di Lecce e orientato ad un pubblico prettamente cinematografico, la prima nota che scrissi in sceneggiatura fu “mai inquadrare la natura”, per questo quasi tutti gli esterni sono liquefatti da filtri artigianali. Negli ultimi lavori invece la natura entra spietatamente, con respiro più herzoghiano. Nei documentari della collana “Intramoenia Extrart” girati nei castelli di Puglia, i cieli immensi dominano a tutto schermo, in Lapisardens (mistura per nastro dauno) la visione passa violentemente dall’opera di Jan Fabre alla copertura del castello di Monte Sant’Angelo per gettarsi nel vuoto: più che un respiro è un’urgente caduta, vicina alla rabbia della scena di Nostra signora dei turchi in cui Carmelo Bene, dal terrazzo di Palazzo Sticchi, lancia la bottiglia di Hepatos contro l’Adriatico.
Ecco, Carmelo Bene: nei tuoi lavori si sente riecheggiare anche lui…
Un amore folle, fisico, pornografico…la mia tesi sul suo cinema mi ha permesso di conoscerlo a fondo. La prima volta che vidi la sua “Salomé” fui folgorato: stavo studiando l’opera di Wilde in Accademia ed avevo visionato diversi film tra cui L’ultima Salomé di Ken Russel e Il vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, ma quella di Bene era illuminante ed illuminata. Lui era un vuoto contenitore nel quale si depositavano altri pensieri ed identità, studiavo le sue opere con accanto il libro di filosofia esplorando così altri mondi aldilà dell’immediata e dannosa fascinazione: il concetto dell’ostacolo da porre nei percorsi fisici ed orali ha influenzato il mio modo di operare. È un grande onore quando qualcuno sente il suo eco nel mio lavoro: Bene è già stato dimenticato con tutte le sue importanti scoperte tecniche che vanno oltre la dittatura del testo di cui sono schiavi molti autori, capaci solo di produrre lavori che non si ‘sentono’.
Un altro aspetto importante è il tuo lavoro sul corpo e sulla messinscena di te stesso. È quello che permette ai tuoi lavori biografici di diventare auto/biografici.
È un’esigenza assoluta, da videomaker, appellativo in cui mi rispecchio completamente. Il video mi ha permesso di fondere ed utilizzare contemporaneamente pittura, fotografia, scultura, performance e musica, per me fondamentale, che si tratti di brani noti o delle composizioni originali di Gabriele Panico, con cui collaboro da qualche anno: il fare tutto artigianalmente, l’orchestrazione e la violenza pittorica sul fotogramma, derivano dall’impronta artistica, non riuscirei a delegare la fotografia o il montaggio ad un altro senza mai metter occhio. Ne Il nido avevo una splendida troupe a disposizione, ma la presenza di tante persone ha violato l’intimità erotica propria della fase creativa: è una questione privata segnata dall’utilizzo ‘medioevale’ delle apparecchiature digitali, un’avan(retro)guardia scaturita dalla voglia di sottrarsi alla burocrazia produttiva che censura la sperimentazione in fase di lavorazione. Per tutti questi motivi nasce la “Untertosten Film (produktionen autarkiken)”, una fantomatica casa/bottega retta da una specie di grottesco Goebbels involgarito dal contemporaneo, con la quale produco i miei lavori in risposta a chi non considera il finanziamento di vitale importanza per la ricerca visiva.
La tua formazione in fondo è proprio pittorica…
Sì, ho frequentato Liceo Artistico e Accademia di Belle Arti.
Il tuo dirti “videomaker” e non “filmmaker” è una scelta precisa?
È una scelta precisissima: io lavoro con il video non con la pellicola, la pellicola è chimica mentre il video digitale è matematica. Se la pellicola è l’impressione di ciò che vediamo, cioè una fotocopia della realtà, il digitale è ricostruzione totale di essa. Come ho detto in altre occasioni, è una questione di DNA: un regista che ignora la differenza tra pellicola, nastro magnetico e memoria digitale non conosce a fondo la specificità tecnica, filosofica ed etica di questi mezzi e commette spesso l’errore di considerare il cortometraggio un ‘film rimpicciolito’ o, peggio ancora, una ‘palestra per il lungo’. Il formato e la durata sono importanti nel cinema come in letteratura: la poesia non è la palestra per il racconto.
Non è indifferente secondo me neanche la differenza tra analogico e digitale, anche perché tu sulla percezione sgranata, impura, dell’analogico lavori in seconda battuta…
Hai perfettamente ragione. Nei miei lavori fotografici parto da scatti fatti su negativi 35mm e dopo lo sviluppo sgratto il superfluo, cioè l’ambientazione, lasciando galleggiare nella trasparenza le sole figure umane. Questa tecnica che sperimento da dieci anni l’ho chiamata “iconoclastia su(al) negativo” per l’azione di cancellazione di ciò che distrae dal dramma. Niente è assoluto e il discorso può essere invertito: rovesciando l’iconoclastia si passa all’iconolatria (di coloro che restano nel vuoto). Non considero video e fotografia due cose separate, mi piace stare in bilico tra analogico e digitale, giocare in questa zona marginale dove tutto si capovolge e Final Cut può sostituire le lame nell’azione autoptica sull’epidermicità dell’immagine. Dal 2000 utilizzo sempre la stessa videocamera, una Mini-DV con bassa definizione che mi ha affascinato con i suoi ‘errori rivelatori’: non sono attratto dall’HD perché non capisco a cosa possa servire l’iperdefinizione in un mondo ricostruito (a parte il discorso della sua applicazione spettacolare, come in Guerre Stellari…). La texture del fotogramma in spudorata evidenza e il rallenty, sviscerati dalla strumentazione donchisciottesca, riportano alla pornografia baudrillardiana affrontata dallo stesso Bene: tutto ciò che è primo piano è porno, il porno è nell’amplificazione, avvicinarsi tanto sino perdere contorni e significati, sempre di più sino a saturare la scena/visione…avvicinarsi alla pelle degli oggetti filmati, al pixel.
A proposito di interni, nei tuoi lavori si sente un certo fascino per l’antiquariato…
È vero…quattro anni di scenografia in accademia per capire che odio gli oggetti e prediligo gli spazi vuoti: la scena è sempre la mia casa. Il fascino per l’antiquariato e l’alone storico di cui parli sono un’attrazione per il vissuto, per il consunto e le rovine: nelle fotografie scalfisco e torturo la superficie del negativo, mentre nel video gli oggetti del ventennio, le ciabatte o i filmati porno, non hanno più un senso filologico, ma sono riesumati nel loculo/monitor dalla memoria e dal ricordo: possiamo ora permetterci di accostare una borraccia della prima guerra mondiale ad una divisa militare degli anni ottanta, una rivista porno del duemila a un abat-jour dei settanta (Trappe e All’erta!) perché il passato è diventato trasparente ed intimo, stuprato della sua identità, alleggerito dal fardello culturale e dalle responsabilità: un passato della memoria appunto, non reale e diverso per ognuno di noi. Non considero nostalgico il mio lavoro ma drammatico: è il dramma dell’esclusione dalla Storia che ci coglie di fronte agli orrori quotidiani. I miei uomini sono spettatori kafkiani, avanzi di sacralità che hanno trovato nell’ironia e nel grottesco un’arma per la lotta alla sopravvivenza…ma nel digitale nulla è vero, il vecchio è nuovo e viceversa…qualcuno diceva che il comico è un cortocircuito del tragico, un paradosso che mi piace sempre ricordare… (a cura di Massimo Causo)
(Intervista realizzata ad Arnesano, Lecce, il 19 novembre 2007, per il catalogo dalla III edizione del Taranto Film Festival)
VIDEOFILMOGRAFIA ESSENZIALE
Sonderbehandlung (2008, cm, dv), Arca di concentramento (2008, cm, dv), Wunderkammer (2008, doc, dv), Suite Joniadriatica (2008, cm, dv), Virginia Ryan – in transitu (doc, 2007), Oligarchico (mosaico da camera) (cm, 2007), Malamano (cm, 2007), L’ultima vhs di Krapp (cm, 2007), Lapisardens (mistura per nastro dauno) (doc, 2007), Addestramento all’apocalisse (cm, 2006), Palpebra su pietra (doc, 2006), Laccuamara (cm, 2006), (videoverture ad otto) (doc, 2006), Autografia d’un videoritratto (doc, 2005), 15/10/05 (doc, 2005), Just for one day (doc, 2005), Trittico in prova (doc, 2005), Zittofono. Sonata in blu per Nagg e Nell (duetto in sincrono per monitor bizantino) (cm, 2005), Dal Toboso (cm, 2005), Macerie dell’Arcobaleno (docufiction, 2004, co-regia con M. Santoro), A Levante (lm, 2004, co-regia con M. Libonati, L. Filotico, C. M. Schirinzi, A. Valenti, S. Chiodini, G. De Blasi, G. Camerino), All’erta! (cm, 2004), Il ri(n)tocco (doc, 2004), Il nido (cm, 2003), Crisostomo (cm, 2003), Che barba! (cm, 2003), Riesumazione (doc, 2002), Zulöfen (cm, 2002), Astrolìte (mm, 2002, co-regia con A. Matarazzo), Trappe (cm, 2001), Perco(r)(s)so (cm, 2001), Talpe (cm, 2001), Dè-tail (cm, 2001), Fondale (cm, 2001), Uniforme (cm, 2000), Camera con vista (cm, 2000), L’appuntamento (cm, 2000), Terminale (cm, 2000), W (cm, 2000, co-regia con M. Stefàno), Il sepolcro (cm, 2000), Aiôn (cm, 2000, co-regia con M. Mangipinto), (A)rota (cm, 2000), £ 3.000 (cm, 2000), Il sogno (cm, 2000), La fam(e)iglia (cm, 2000), Sole (doc, 2000), Juliette. Sussurri di velluto (cm, 2000), La cella del frate (cm, 2000), One step beyond (cm, 2000), Phamplet (cm, 2000, co-regia con L. D’Ambrosio), Z/OOO (doc, 2000), Les gestes essentiel (doc, 2000, co-regia con L. D’Ambrosio e M. Mangipinto), Di-nuovo? (cm, 2000), Amami e baciami (cm, 2000), L’amanuense (cm, 2000), Sementi assenti (cm, 1999, co-regia con M. Stefàno).