VIAGGIO IN ITALIA – "La paura", di Pippo Del Bono

pippo del bono la paura
Un videofonino agile, discreto, può offrire una fotografia più autentica e spontanea del paese. Un’immagine più naturale meno condizionata da quella voglia di apparire edonistica, tutta televisiva che condiziona i soggetti ripresi con l‘obiettivo tradizionale. In attesa di un pieno riconoscimento culturale, il circuito festivaliero tradizionale apre lentamente le porte alle nuove tecnologie…

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pippo del bono la pauradi Giuseppe Sedia

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Con un gesto coraggioso i selezionatori dell’ultima edizione del Festival di Locarno hanno deciso di proiettare fuori competizione La Paura, mediometraggio di Pippo Del Bono girato con tecnologia UMTS. Dopo aver raccontato la trasferta della sua compagnia teatrale tra le macerie della Palestina in Guerra (2004), e il suo incontro con l’attore sordo muto Bobò in Grido (2006), il regista ligure impugna il telefonino per filmare un viaggio in Italia a bassa fedeltà tecnologica. Per la prima volta Del Bono abbandona ogni riferimento al teatro. Nessuna ripresa sul palco e l’elemento recitativo si limita alla sua voce ruvida e profonda a commento di un regime narrativo debole. Uno stile frammentario, ellittico che sarebbe piaciuto al Mario Schifano di Umano non umano (1971).
Il film si apre con i consigli di un nutrizionista obeso catturato da una televisione locale e l‘attività frenetica di una palestra. Una sequenza che stride con le immagini dei senzatetto e le riprese del proprio addome peloso. Del Bono punta il videofonino sulle rotondità del suo corpo come in un video-saggio grottesco di body-art che irride i simboli della società del benessere. Si tratta dell’unico episodio auto-riflessivo di uno sguardo indignato e penetrante, tutto rivolto all’esterno. La sua rabbia poetica viene presto incanalata nell’osservazione disincanta e poetica della realtà. E l’urgenza del gesto trova uno sfogo nelle riprese in diretta alla veglia funebre di Abdul Guiebre, il diciassettenne africano ucciso a bastonate lo scorso settembre per aver rubato un pacco di biscotti a Milano. Il videofonino testimonia l’assenza dei media e delle istituzioni alla celebrazione seguita soltanto da 500 persone.

Che Del Bono abbia lasciato il teatro per il documentario almeno sullo schermo, diventa ancora più evidente nelle sequenze girate all’interno del campo Rom di Moncalieri. Due bambini sorridenti rincorrono il videofonino del regista per chiedere di essere fotografati insieme ad un cane randagio. Del Bono li filma ma il suo sguardo irrequieto è troppo mobile per scattare una foto: senza troppa retorica il regista continua la sua esplorazione del luogo infilando il cellulare tra le finestre delle roulotte. Il cane randagio che gioca con i bambini diventa un punto di raccordo con la sequenza successiva che racconta il degrado mediatico del paese attraverso il frammento di una puntata del programma Rai “Cani gatti ed altri amici”.

I padroni ospiti in studio raccontano il loro rapporto con gli animali domestici attraverso alcuni brevi filmati intervallati dai consigli in diretta dei veterinari della trasmissione. Con una metafora inquietante Del Bono descrive l’italiano medio come animale televisivo schiavo del conformismo mediatico. Una condizione alla quale il regista stesso è consapevole di non potersi sottrarre completamente. Per questo Del Bono decide di affidare l’epilogo all’attore sordo muto Bobò, osservato davanti al televisore mentre guarda un ridicolo concorrente della Corrida che si esibisce davanti a Gerry Scotti facendo i versi degli animali. Bobò offre una chiave diversa di accesso alla realtà: soltanto il suo sguardo selvaggio e distaccato, libero dai condizionamenti del linguaggio verbale riesce a mettere a nudo la banalità del male in televisione.

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