VIAGGIO IN ITALIA – Mario Brenta “Un altro patetico tentativo di fuggire la morte”

calle della pietà

A proposito del regista veneziano, nell'occasione della recente messa in onda su Fuoriorario dei suoi ultimi due lavori, girati assieme alla filmmaker belga Karine de Villers: Calle de la Pietà (2010) e Agnus Dei (2012). Autore di un cinema che sta nello scarto tra il tempo della vita e l'esserci concreto dei viventi al presente, anche in queste due opere resta fedele alla sua ispirazione

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calle della pietàLe ultime ore di Tiziano Vecellio, la prospettiva della memoria di un vecchio padre che ricorda l'ombra della sua infanzia, l'esigenza di fermare l'attimo nella ricomposizione estrema della coscienza, partendo dalla consapevolezza che “fare un film è nostalgia, un altro patetico tentativo di fuggire la morte”: Mario Brenta non sfugge a questa verità, che dichiara senza mezzo termini in chiusura del suo penultimo lavoro, Calle de la Pietà, e non rinuncia all'idea di un cinema in transito sulla marginalità di luoghi e figure (ormai) estranee al flusso della vita comunemente intesa.

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Sappiamo bene – anche solo per aver visto il suo film più frequente, il buzzatiano Barnabo delle montagne – che per lui il tempo della vita è quello che si pone in ascolto della visione, che ode il fruscio di un mondo da scrutare con la dimestichezza delle emozioni. Ricordiamo del resto la fiaba intrinseca nell'infanzia del piccolo Maicol in fuga nella metropolitana da una madre distratta, così come siamo stati a caccia di vermi nel fango alla periferia di una Milano subproletaria assieme al protagonista di Vermisat.

calle della pietàTutte storie che raccontano il cinema di un'altra Italia in cui viaggiare con lo sguardo e che si evocano ora nell'occasione della recente messa in onda su Raitre (“Fuoriorario”, ovviamente) degli ultimi due lavori girati da Brenta, assieme alla filmmaker belga Karine de Villers: il già citato Calle de la Pietà (2010) e il più recente Agnus Dei (2012). Due esperienze di cinema della trasparenza, scritto in filigrana sulla distanza di un filmare che evoca luoghi, storie, visioni distanti. Il solito, immancabile scollamento del cinema di Mario Brenta: lo conosciamo come un osservatore che discrimina l'attimo nel suo stesso svolgersi, che lavora sullo scarto tra il tempo della vita e l'esserci concreto dei viventi al presente.

In questi due ultimi lavori realizzati in compagnia di Karine de Villers (disponibili anche in DVD Cecchi Gori), Mario Brenta resta fedele alla sua ispirazione, insistendo sul rapporto intrinseco tra la dimensione della vita e la spiritualità dell'esistere. Calle de la Pietà (2010, 60') è un poema che smargina l'ipotesi “biografica” dell'ultimo giorno di vita del Tiziano, scandagliando le ore estreme del pittore, trascorse in compagnia di una giovane donna a lavorare su una Pietà destinata alla sua sepoltura, mentre veniva consumato, assieme ad altri 50.000 veneziani, dalla peste di San Carlo.

calle della pietàLo spunto si traduce in un tessuto trasparente di tempo scandito sull'ascolto del nulla, smarginando tra dettagli, riflessi, spazi riempiti di attenzione pulviscolare, frammenti di consapevolezza dell'esistere colti negli angoli dimenticati della vita. Il lirismo non è gesto stucchevole perché Brenta conosce la pazienza del presente che ascolta l'eternità, la disfunzione della nostalgia che già si applica all'istante vissuto nel patetico tentativo di fuggire la morte: ovvero fare cinema, per l'appunto! E allora la posa classica della Venezia lagunare si muove tra le testimonianze dell'isola del Lazzaretto Nuovo, applicandosi alla lettera della calle (che dà il titolo al film) dove il Tiziano aveva casa e bottega, ricostruendo la nudità dell'ultima posa della modella pietosa nelle pose di un moderno studio d'arte… Sembra quasi di ritrovare la sospensione immutabile del tempo che Brenta aveva descritto perfettamente nel televisivo Robinson in laguna.

agnus deiAgnus Dei (2012, 25'), invece, è legato a un'altra morte, quella in un letto d'ospedale del padre di Karine de Villers. Qui la filmmaker belga sembra guidare l'ispirazione, trattandosi di un lavoro interamente scritto sul tentativo della regista di tener fede alla promessa fatta al padre di raccontare l'angosciosa e sempre taciuta esperienza di cui l'uomo era stato vittima in infanzia: gli abusi subiti in un collegio religioso. Un tentativo, per l'appunto, che si trasforma ben presto in qualcos'altro, perché, come già i due autori avevano capito a proposito della storia del Tiziano, “fare un film sul passato che ne sia soltanto la ricostruzione, rischia di essere qualcosa di falso, di polveroso…”. E allora Agnus Dei si fissa sul presente ormai trascorso (l'immagine “rubata” dalla figlia al letto di morte del padre) per evocare il passato mai trascorso nella coscienza di quel bambino abusato e ormai morente. L'intensità è alta, funzionale a un'emozione che però trasuda voglia di liberare il corpo dall'abuso. E infatti l'immagine è trafitta anche qui da una trasparenza che illumina il controluce della coscienza, i luoghi ritrovati degli eventi non rievocano i fatti ma gli spazi, i tempi trascorsi nel silenzio di un segreto trattenuto per tutta la vita. Il convento ormai abbandonato e cadente e lo spettro di se stesso e Mario Brenta, che qui sembra soprattutto incidere col suo sguardo l'evocazione operata da Karine de Villers, percorre con consapevolezza tutta teorica il senso didascalico dello sguardo sui luoghi (panoramiche lente, linee di fuga prospettiche), ben consapevole che lo stigma della colpa perpetrata in quel luogo si traduce nelle stimmate del crocifisso che campeggia in controluce.

agnus deiPer questo Agnus Dei è tutto un transitare sulla simbologia di un abbandono che occupa la potenza dell'immagine: fotogrammi di cataclismi, ombre in pena che deambulano, attese di silenzi che tradiscono lo smarrimento. Il tempo qui è tutto sospeso sulla pena, l'immagine proibita del padre intubato in ospedale è l'alternativa alla narrazione piena e concreta del suo segreto consegnato alla figlia. Mario Brenta qui è testimone muto ma potentemente partecipe dell'ennesimo tentativo di fuggire la morte. Che infatti si chiude citando (prima dell'immenso Miyazaki) il Valery del cimitero marino: “Il vento si sta alzando, cerchiamo di vivere”…

 

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