Vidblysk (Reflection), di Valentyn Vasyanovych

Vasyanovych racconta la guerra tramite staticità e simmetria e questo non può non atterrire ma al contempo incantare. Certo c’è l’immobilità ma poi c’è la fuga nel riflesso…In concorso

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Dopo Atlantis, presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 76, Valentyn Vasyanovych torna al Lido, in concorso, con Vidblysk (Reflection). Il regista ucraino racconta ancora una volta la Guerra del Donbass, conflitto scoppiato nel 2014. Così con Reflection, Vasyanovych ci ripete che la guerra è lì, impossibilitato a soffermarsi su altro. Lo fa con un film che ha molti punti in comune con Atlantis, e se già allora Vasyanovych si esprimeva con inquadrature per lo più fisse, statiche e senza libertà del movimento, in Reflection la struttura si irrigidisce ancora di più, l’immagine si congela e diviene quadro, chiamandoci con tono perentorio ad assistere a ciò che mostra, e privandoci di possibilità di fuga. Ogni movimento è ridotto al minimo, ogni dialogo anche: è bandita l’allegria del superfluo. E di fatto se c’è guerra non c’è aria, o se c’è non può che essere immobile come il tempo in una stanza di tortura.

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Quadro dopo quadro, ogni immagine di Vasyanovych, simmetrica e sicura dei propri contorni, riflette la guerra. Lo fa quando la esibisce, senza sconto alcuno, chiamandoci con severità ad assistere alle torture e alle umiliazioni dei campi di prigionia. Ma lo fa anche laddove non la mostra, nei riflessi, quando il protagonista torna a casa, allontanandosi dal nucleo centrale della guerra, portandoci con lui, finalmente lontani dall’immagine esposta e chiamata ad urlare l’orrore. A casa invece, dalla figlia Polina e dalla ex compagna, le immagini sembrano farsi per un attimo più libere e gentili. Ma eccoli i riflessi del titolo, riflessi della guerra ravvisabili ovunque: dietro a un vetro che esibisce una partita di paintball o nell’impronta della morte di un piccione che confonde una finestra per la vastità del cielo. E ancora in una casa ordinata e pulita a cui fare ritorno che non può non rimandare, per contrasto, alla cella angusta in cui si è stati rinchiusi. Riflesso dietro riflesso, tutto nei quadri di Vasyanovych, è perfettamente in ordine ed ogni oggetto interrogato dalla macchina da presa sprigiona significato, ogni immagine riflette altro: la ruggine di uno sportello che si apre stridendo diventa un paese abbandonato al conflitto, e la stupido su e giù di un congegno elettrico che trasporta cadaveri, esprime tutta la banalità del male.

Certo poi c’è quel drone regalato alla figlia Polina come gioco e non come oggetto di guerra. Questo perché, nel raccontare l’orrore, Vasyanovych insiste, adempiendo ad un altro dovere necessario, su ciò che rimane fuori dall’orrore, che può essere fare l’amore su un camion mentre il mondo finisce come in Atlantis, o il bene che corre fra un padre ed una figlia. Accanto alla guerra, c’è qualcosa che ci porta avanti, quelle radici che ci tengono ben ancorati al pavimento. L’amore che altro non è che un riflesso, il suono dei passi amati mentre non guardiamo…
Vasyanovych racconta la guerra tramite la staticità e questo non può non atterrire ma al contempo ci incanta. Perché la grandezza del regista sta nella lucida consapevolezza dell’immagine e dei suoi piani, delle sua aperture, della capacità di mostrare altro da quello che è. Del contrasto, salvifico, fra l’immobilità e il riflesso.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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