VIDEOCLIP – Hope for Haiti

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“Hope for Haiti” è stato uno straordinario, inconsapevole, gigantesco, videoclip che dona disperatamente musica ad uno dei disastri umanitari più gravi di sempre. Tutti insieme e tutto insieme: opera collettiva, concerto globale, evento mediatico, super-format televisivo, esperimento di business musicale, requiem, inno di speranza

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“If a building falls in Haiti, and nobody is there to hear George Clooney, does he make a sound?”

(Anonimo su Youtube)

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Il telethon televisivo (titolo per esteso: “Hope for Haiti Now: A Global Benefit for Earthquake Relief”) trasmesso contemporaneamente il 22 gennaio scorso da 25 diversi network americani (Abc, Cbs, Nbc, Fox, Cnn, Bet, Cw, Hbo, Vh1, Cmt) è stato un successo strepitoso. Un’idea venuta a George Clooney guardando le immagini del terremoto e immediatamente tradotta in realtà da MTV (che ogni volta che c’è da fare qualcosa di importante e leggendario mette le luci al minimo: questa volta niente candele, ma una costellazione di lampadine sospese che punteggiano di bianco lo sfondo blu cobalto). Poi Clooney è riuscito a radunare mezza Hollywood, i volti più noti al mondo, ed alla fine si è messa di mezzo anche la Apple, a dare una mano: tutte le esibizioni dei cantanti sono state prontamente messe in vendita su

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beyonce e chris martin - hope for haitiiTunes Store in real-time ad un prezzo di 99 centesimi. (E l'album “Hope for Haiti Now” è balzato in un solo giorno al posto posto della classifica iTunes in oltre 18 paesi).
Ne è venuto fuori un super-show, di quelli che solo certe occasioni benefiche possono produrre. C’erano tutti: Sting, Stevie Wonder, Alicia Keys, Bono, the Boss. Le migliori voci al mondo che si ritrovano, abbassano le luci, attaccano a cantare:
il risultato è uno straordinario, inconsapevole, gigantesco, videoclip che dona disperatamente musica ad uno dei disastri umanitari più gravi di sempre. Una triste e magistrale soundtrack fatta di performance improvvisate, duetti inediti, grandi assoli al pianoforte e che finisce poi per essere anche molto altro: concerto globale, evento mediatico, super-format televisivo, esperimento di business musicale, requiem, inno di speranza.
Prodotto a soli due giorni di distanza dalla calamità che ha seppellito Port-au-Prince, con collegamenti tra New York (conduce l’haitiano Wyclef Jean), Los Angeles (con George Clooney) ed Haiti (l’inviato è Anderson Cooper della CNN) l’evento ha coinvolto tutti i mostri sacri del panorama pop internazionale (Madonna, Chris Martin, Beyoncè, Justin Timberlake.
Provate a fare un nome: c’era.
E vengono i brividi a pensare a quanto sarebbe piaciuto al “Re” essere lì in mezzo, a cantare di bambini e solidarietà.)
Molte ballate al pianoforte, cover d’autore e d’atmosfera, poi per fortuna Sting a dare un po’ di ritmo. Infine Bono, Jay-Z e Rihanna con un brano inedito sfornato alla svelta proprio per l’occasione (Stranded (Haiti Mon Amour)).
Ed è in fondo proprio questa rappresentazione dello sforzo, della volontà di fare tutti qualcosa per Haiti -anche così, come viene – a tenere insieme uno show altrimenti disomogeneo per intensità delle singole performance (Stevie Wonder vs Shakira? Neil Young vs Taylor Swift?) e complessivamente prevedibile nelle scelte dei brani (Timberlake che canta (benissimo) Hallelujah di Leonard Cohen fa effettivamente un po’ cadere le braccia. Così come Springsteen con la didascalica We Shall Overcome. Per non parlare di Beyoncè che cambia stucchevolmente il testo della sua Halo in “Haiti, I can feel your halo”)
La cosa che cattura, alla fine, è quel misto di improvvisazione e cura perfetta dei dettagli, a metà tra occasionale reunion tra amici e sincronizzato incrocio di talenti e professionalità. E poi quella specie di meraviglia della musica colta in flagrante, nata purissima ma quasi per caso e per gioco.
bono the edge rihanna jay-z hope for haitiE forse non è nemmeno la sola, seppur straordinaria, presenza di quegli stessi giganteschi nomi a dare per intero l’idea di uno show perfettamente costruito in ogni suo istante. A monte c’è evidentemente una modernissima visione di megaspettacolo costruito su un audience globale e sul perfetto montaggio di celebrità, racconto ed emozione: l’appello commosso di Julia Roberts che guarda fisso in macchina senza un filo di trucco, Leonardo Di Caprio che si mette al telefono a tirar su dollari, Muhammad Ali sulla sedia a rotelle.
Un evento spettacolare la cui cifra finale è molto più che la somma delle singole comparse e il cui valore risiede probabilmente proprio in questa efficacissima interpretazione del dolore: un dolore messo negli occhi, nei gesti e soprattutto nelle voci e nella musica.
Viene fuori questa micidiale capacità di vestire la retorica – per renderla bella, nobile – di darle voce e corpo senza un solo istante di indecisione e di pudore. Tutto assolutamente falso e per questo tutto assolutamente buono, giusto, utile e sensato.
A fare un minimo di semantica delle immagini verrebbe anche spontaneo riflettere su come, alla fine dei giochi, le elegantissime sequenze del concerto trasmesse in diretta sui maggiori network Usa si sovrappongano agilmente alle drammatiche scene haitiane di distruzione, generando un contrasto visivo tra l’asimmetria del disastro e la morbida messa in scena televisiva che urla vendetta e giustizia.
Ma in fondo non è precisamente questo Hollywood?
Il mondo perfetto che per una sera mette su la faccia scura migliore, rompe la voce al millimetro e raccoglie 57 milioni di dollari per le poverissime vittime dell’inferno caraibico.
God bless America. God save Haiti.

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