Vie privée, di Rebecca Zlotowski
Uno psicodramma comico che non trova l’equilibrio e resta vacillante sulle tematica che vuole investigare, l’alienazione mentale della protagonista Jodie Foster. CANNES78. Fuori Concorso

Dopo il ruolo che le è valso un Golden Globe per True Detective: Night Country, la due volte premio Oscar Jodie Foster torna alle indagini sul campo, stavolta nelle vesti di una psichiatria, Lilian Steiner, quando comincia a sospettare ci sia qualcosa dietro il suicidio di una sua paziente di lungo corso, Paula, ed a pensare si sia trattato di omicidio. Finirà per scoprire qualcosa di sé stessa, di come era e di cosa era diventata, dei problemi che la assillano, degli amori concreti e di quelli lontani. Rebecca Zlotowski torna con una combinazione di commedia e dramma psicologico, sulle note di Psicho Killer a cui spetta l’overture. Con il cast che si trova a disposizione, la fedele Virginie Efira, Daniel Auteil, Mathieu Amalric, riesce soltanto a sfiorare una comicità che nasce soprattutto dalle situazioni al limite del grottesco e dalle espressioni facciali degli interpreti, delle maschere buffe e goffe fino al ridicolo ed un atteggiamento quasi macchiettistico. Abulica, abituata ormai a dubitare del mondo circostante, con un matrimonio fallito alle spalle, ed un figlio con il quale non si sente a suo agio e non trova il legame, l’attenzione per la vittima rompe una routine quotidiana fatta di appuntamenti e poco altro e risveglia una curiosità che coincide con qualcosa di essenziale intrappolato nella mente. Ed anche la sua vita sentimentale subirà una scossa che la porterà ad un riavvicinamento con il suo ex marito oculista.
L’inchiesta è comunque la parte più lacunosa, lascia cadere svogliatamente delle piste, più preoccupata a seminare che a raccogliere, anche se non è chiaro quale sia il reale intento della regista. Una maggiore introspezione dei sospettati insieme ad una gestione meno approssimativa dei dialoghi avrebbero consentito di ottenere una tensione che invece non c’è. L’ambiguità ed il conflitto interiore muoiono sul nascere, e a dirla tutta, anche le prove degli attori non sembrano delle più ispirate, fatte salve appunto delle gag che sembrano indirette e non provocano empatia e neanche repulsione. I ritmi del film sono piuttosto blandi, con dei tratti di romanticismo molto meno marcati rispetto a Les enfants des autres, mentre recupera un interesse spirituale dopo Planetarium con il coinvolgimento di una strana e buffa ipnotista che provoca in lei un viaggio a ritroso nel tempo. Nel complesso lascia una traccia estemporanea su una tematica vacillante che neanche l’utilizzo dell’intelligenza artificiale sull’estetica delle scene oniriche può stabilizzare. Manca proprio un modello, una struttura psichica che la scelta della professione avrebbe dovuto ispirare, la capacità di scavare nel rimosso per individuare le paure. Rimane solo una bozza coerente, purtroppo, alla canzone dei Talking Heads, You start a conversation, you can’t even finish it, inizia una conversazione che non sa finire.