Viet and Nam, di Truong Minh Quý

Presente e passato si specchiano vicendevolmente in un’opera profondamente concettuale e politica che sottolinea lo scollamento identitario del Vietnam, dal Bolzano Film Festival appena concluso

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2001, Vietnam. Viet e Nam si amano. Fanno i minatori, lavorano a più di mille metri sottoterra. Ed è proprio lì che nascosti, lontani dalla luce del giorno e dagli occhi indiscreti dei colleghi minatori, possono consumare il loro amore oltre al poco ossigeno rimasto, avvolti dall’oscurità dei cunicoli della miniera. Il sudore dei loro corpi si mescola e si confonde con il carbone nero pece in una prima inquadratura che riporta alla mente la sequenza con cui si apre Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais.

D’altronde, anche l’opera di Truong Minh Quý, presentata in anteprima nazionale in concorso al BFFB38 dopo il passaggio a Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard, ricerca nelle meravigliose immagini della sequenza iniziale di un amplesso quella potenza evocativa che ci accompagna in dolente viaggio nella memoria. L’unica (potenza evocativa) in grado di poter intrecciare il rapporto che lega i traumi individuali di due giovani ragazzi omosessuali, costretti a nascondere il proprio amore, al trauma collettivo di un paese dilaniato dalla guerra fratricida, scoppiata circa quarant’anni prima, e dalla conseguente invasione americana. Presente e passato si specchiano vicendevolmente in un’opera profondamente concettuale e politica (non a caso il film è stato bandito in Vietnam per l’immagine decadente che restituisce del paese) ma che riesce a creare una profonda connessione emotiva con lo spettatore. Il focus narrativo, con un incedere che si fa progressivamente sempre più astratto e rarefatto, si sposta, infatti, sulla madre di uno dei due ragazzi, impegnata da anni nella dolorosa ricerca del corpo del marito, caduto in battaglia durante la guerra. Ecco che la donna, arrivata allo stremo delle forze, decide di farsi aiutare da una medium in grado di metterla in contatto con il marito defunto. Ma le apparizioni fantasmagoriche dell’uomo vengono rappresentate attraverso alcune toccanti sequenze allucinate, dove l’anima del morto sembra fondersi con il corpo dei vivi, rimandando continuamente a quel senso di perdita e morte che continua ad aleggiare in un paese incapace di fare i conti con il dolore innescato dalla guerra fratricida, dove gli annunci televisivi ripetono in loop i nomi dei martiri mai tornati dal fronte. E allora, non è un caso che già dal titolo (che compare inaspettatamente dopo circa metà della pellicola) il regista vietnamita cerchi di sottolineare questo contrasto, questo scollamento identitario che invade le immagini del suo film girato in pellicola 16mm. Un film che gioca tantissimo sui contrasti anche e soprattutto attraverso una meravigliosa fotografia che alterna le luci e i riflessi della giungla vietnamita, teatro di morte e atrocità durante la guerra, all’oscurità degli abissi, paradossale rifugio d’amore e di passioni clandestine tra giovani amanti.

Si procede quasi per accumulo e il regista esegue una sovrimpressione ideale degli argomenti più cari al suo cinema militante ma, al tempo stesso, profondamente introspettivo. C’è tantissima carne al fuoco e la partita si gioca anche su temi politici e sociali come la tratta dei migranti e l’ambientalismo, con quest’ultimo che, forse, rimane un pochino più in superficie rispetto al resto. Ma c’è davvero poco da imputare ad un’opera così sentita, mosaico espressivo di un dolore trasversale ad epoche e generazioni, che si conclude con un movimento di macchina semplicemente meraviglioso che parte dalle viscere della terra per poi spiccare il volo abbandonando i due innamorati nell’oscurità sospesa tra gli abissi del mare.


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