Violenza e coscienza – "Cella 211", di Daniel Monzón

cella 211La violenza come strada per scuotere la coscienza. Non la violenza fisica, neanche quella psicologica: una violenza che potremmo chiamare mentale, che si incarna nei due protagonisti e mostra che, ancora, chi mette in comunicazione due mondi destinati a non toccarsi paga sempre il prezzo più alto

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cella 211La violenza come strada per scuotere la coscienza. Non la violenza fisica, che il regista lascia fuori campo ogni volta che non è indispensabile alla storia. Una violenza che non è neanche psicologica, che forse potremmo chiamare “mentale” e che si incarna nei protagonisti: il personaggio di Malamadre (lo spagnolo Luis Tosar, Miami Vice), estremamente ansiogeno nella totale imprevedibilità delle sue azioni, e il personaggio di Juan (l’emergente argentino Alberto Amman), luogo empatico e dolorosissimo dell’identificazione.
Cella 211 chiama lo spettatore a sentire. Tutti i canali – il montaggio, la scrittura, la recitazione, il sonoro – convergono fin dall’inizio (e con una notevole tenuta per le quasi due ore del film) verso la creazione di uno stato di continua e costante ansia che non ha niente da invidiare alle punte massime dell’horror. Del resto almeno una scena di violenza sembra una citazione del Nameless di Jaume Balagueró; mentre l’ambientazione claustrofobica – (quasi) tutto si svolge all’interno del carcere – sembra addirittura rimandare, per qualche attimo, all’atmosfera del primo Rec. L’imprevedibile arriva dall’alto. L’udito non è (più) un mezzo di sopravvivenza.
Cella 211 chiama lo sguardo a sentire l’inevitabile imprevedibilità di chiunque sia sottoposto a una sopraffazione. Paura, violenza mentale, realismo sono i tre sentieri percorsi con successo da Monzón: un senso di realtà veicolato sia dalla bravura dei due protagonisti, sia dal modo in cui vengono rappresentati gli altri – il direttore e i funzionari di “sicurezza” del carcere, i vari burocrati che tentano di risolvere la rivolta dei detenuti con una serie di negoziazioni. All’inizio umani e quasi simpatici (sembra un curioso ribaltamento di genere), questi personaggi sono il veicolo di un lento e progressivo svelamento dell’incessante tea
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cella 211trino in cui le menti sono spettatrici impotenti (se fortunate), invischiate e controllate (se sfortunate). I media che inchiodano, i media che ingannano; i giochi di potere (efficace anche il richiamo all’attualità rappresentato dall’ETA) che si fanno beffa anche di tutti i confini comunemente pensati come non oltrepassabili.
Cella 211 riesce a non prendere le parti (sebbene il messaggio sulla suddetta “sicurezza” sia abbastanza forte e chiaro), è una pellicola estremamente complessa nella dialettica che mette in scena tra umano e disumano. Lo sguardo (le panoramiche) contrasta con l’oggetto (gli ambienti di un mondo chiuso e blindato), i detenuti (e fino a un certo punto, anche chi li controlla) sono presi nella loro umanità (la cui incarnazione principale è l’intera vicenda di Juan) ma, allo stesso tempo, l’intero mondo rappresentato è disumano. Anche questa contrapposizione è violenza per la mente. E in una storia così realmente, e totalmente, priva di speranza è questa violenza l’unico appiglio in una realtà dove ancora – e il cuore della storia, l’amicizia tra Juan e Malamadre, i detenuti che li sollevano insieme dice proprio e anche questo – chi passa il confine, chi mette in comunicazione due mondi destinati a non toccarsi, è destinato a pagare il prezzo più alto.
 
Titolo originale: Celda 211
Regia: Daniel Monzón
Interpreti: Luis Tosar, Alberto Ammann, Carlos Bardem, Marta Etura, Antonio Resines, Luis Zahera
Distribuzione: Bolero Film
Durata: 114’
Origine: Spagna/Francia, 2009
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    2 commenti

    • Sono un semplice spettatore capitato qui per avere informazioni su un film visto da poco. Non vorrei delirare o essere paranoico, ma mi sembra importante anche il tema della parola: l'ultima parola, in tutti i sensi ce l'ha la polizia e spesso questa parola è smentita (o almeno non confermata) dall'immagine: il funzionario alla fine del film, rivolto alla mdp, ci chiede se vogliamo sapere altro. Effettivamente sì, vorremmo vedere più che sapere, visto che delle parole della polizia il film fa intendere che non ci si può fidare troppo. La polizia: (i) cerca silenziare la stampa negando o minimizzando la rivolta carceraria; dice alla moglie dell’infiltrato-per-caso che il marito non è in pericolo (falso); (ii) dice all’infiltrato che la moglie sta bene dopo che lui l’ha vista in tv nella calca fuori dalla prigione (falso), ma questa informazione sarà mentita da una immagine di un cineoperatore rimandata su un telefonino in possesso di un carcerato;

    • (iii) dice al marito che la moglie nonostante le manganellate sta bene ed ammette solo poi che è morta (ma l'unica immagine che noi spettatori vediamo è la moglie in un letto di ospedale attaccata ad una macchina).

      Di fronte a questi elementi, quando alla fine vediamo dei cadaveri chiusi nei sacchi, e di uno non ci viene fatto vedere il viso, mentre la mdp inquadra un poliziotto che dice di riconoscere l’infiltrato (e poi vediamo il funzionario dice di fronte alla mpd di essere dispiaciuto di non aver fatto uscire vivo l’infiltrato dal carcere), mi chiedo: perché dovremmo effettivamente credere che sia morto, visto che non abbiamo visto il cadavere (né il suo né quello della moglie) e visto che la polizia mente per tutto il film? È un dettaglio trascurabile che non cambia certo il senso del film (il sacrificio dell'infiltrato-per-caso), ma ho notato questo elemento.