Visions du Réel 2022 – Conflitto e cambiamento

Nel concorso internazionale di Nyon si intrecciano storie trasversali, con un occhio privilegiato sull’uomo e la natura. Osservatori privilegiati, offesi dall’orrore ma pieni di speranze e di sogni

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Uno dei titoli più urgenti del concorso internazionale in programma a Nyon è sicuramente Inner Lines di Pierre-Yves Vandeweerd, dove l’autore visita luoghi intorno ad Ararat, segnati dalle persecuzioni e dai massacri, spesso di natura etnica, guerre silenziose lontane dal clamore dei media, in quei casi evidentemente distratta. Si muove tra le linee interne, intorno ai confini devastati dal dolore, con uno stile poetico di rivendicazione del lutto. Quei corpi esanimi restano nella memoria dei sopravvissuti, resi muti dalla sofferenza, ridotti ad un balbettare nel pianto. Spezzati da qualcosa di profondo, impossibile da comunicare. Le immagini si perdono nel volo di una colomba chiamata a portare un messaggio di speranza, nel buio di una stanza piena di candele votive, nel bianco immacolato di una vergine impermeabile alla violenza della realtà, eterea come fosse in un sogno. Le conseguenze di un conflitto asimmetrico di stampo terroristico sono quelle toccate ai componenti di Daesh (il famigerato ISIS) raccontate in Rojek di Zaynê Akyol, attraverso le interviste con i prigionieri e le immagini dei campi allestiti per ospitare donne e bambine orfane di padre. La testimonianza diretta cerca di risalire alle radici del fanatismo, ad esplorare le motivazioni di carattere religioso e quelle di carattere puramente economico, ad isolare gli spazi ed i contesti dove si è consumato l’orrore. Anche se alle spontanee ammissioni di colpa sui crimini raramente si assiste ad un pentimento, e le stesse responsabilità vengono spostate su un asse superiore, con il vertice dell’organizzazione sparito nel nulla, mimetizzato nello snodo mediorientale, centro nevralgico di una instabilità percepita a livello mondiale. In Foragers di Jumana Manna il nucleo della storia è ambientato nel luogo in cui le recriminazioni reciproche, la mancanza di fiducia, le accuse, sembrano ormai un’eredità impossibile da ignorare, cioè la Palestina. Il cuore della discussione stavolta tralascia la natura bellica per trasferire lo scontro sui campi, che vede protagonisti l’Autorità israeliana sui parchi e gli agricoltori palestinesi, e per farlo ricorre adoperando finzione e realtà. Lasciando emergere come al lato della ragione manchi molto spesso il buon senso.

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I tre protagonisti di 5 Dreamers and a Horse di Aren Malakyan & Vahagn Khachatryan hanno qualcosa da sognare per il futuro. Il presente è soltanto un passaggio, un’attesa, un cavalcare nel vuoto di un deserto prima di incontrare un’oasi. Sfondo del racconto è l’Armenia, un paese ancora fortemente rurale nella struttura e nei desideri, un limbo toccato dal bisogno di modernità, dalla necessità di fare delle conquiste a livello sociale e politico, di poter immaginare una svolta nei diritti e nelle aspirazioni. Che trovano naturalmente delle resistenze nei costumi difficili da estirpare, nei modi rassicuranti della tradizione, utilizzati al solito per scoraggiare qualsiasi ipotesi fuori dalla linea stabilita. Quella di Bitterbrush è l’orizzonte delle praterie. Emelie Mahdavian gira un documentario western seguendo due donne, Collie e Hollyn, durante il lavoro estivo in un ranch. L’occhio si perde nei piani lunghissimi del panorama, salvo poi stringere sulle protagoniste negli immancabili momenti di riposo attorno ad un fuoco, e guardare il lato intimo contrapposto all’immensità della natura circostante. My Old Man di Steven Vit racconta di un grande cambiamento nella vita del padre del regista, un alto dirigente arrivato alla pensione dopo 43 anni di lavoro in azienda. La nuova quotidianità è tutta da stabilire, e dopo la felicità di un traguardo conseguito resta il dubbio su quale debba essere il prossimo. La prima tappa è una riunione di famiglia, un viaggio, la possibilità di conoscerci oltre la dimensione del ruolo, dentro le pieghe di una fragilità affiorata non appena viene rimosso qualcosa di acquisto, quando il tempo diventa agile, sottomesso ad una libertà diventata un’abitudine poco considerata.

How to Save a Dead Friend di Marusya Syroechkovskaya è un documentario girato in Russia sulla vita di due adolescenti inquieti in una società disinteressata ai loro bisogni, e vittime di autolesionismo dovuto alla depressione. Un quadro nichilista, di abbandono, che non rinuncia a mostrare il dissenso rivolto al governo putiniano, le proteste di piazza, gli slogan disperati, ma non può fare a meno di mostrarne i limiti, e l’assenza di raccordo tra un’ideale collettivo e la crisi quasi irreversibile a livello individuale di una gioventù votata all’autodistruzione. Considerata tutto sommato un’alternativa per dimenticare le brutture di una realtà fuori dalla propria portata. All of Our Heartbeats Are Connected Through Exploding Stars di Jennifer Rainsford torna su un avvenimento dirimente della storia recente del Giappone, lo tsunami che ha colpito il paese a Settembre del 2011, il giorno 11, una data legata già a qualcosa di funesto. Le intenzioni della regista vanno nella direzione opposta del disastro, per raccogliere dalla paura e dalle macerie la possibilità di concepire un’ennesima incessante rinascita. E per farlo pone l’enfasi sulla natura e i suoi legami, dalla profondità marine fino al cielo, l’esplosione microscopica e plastica del plancton, e quella macroscopica e pulsante delle stelle, unite dal filo di un’unica luce invisibile. Nel film Tara, Volker Sattel & Francesca Bertin indagano sulle proprietà benefiche del fiume omonimo del titolo, a Taranto, le cui acque avrebbero secondo gli abitanti delle qualifiche curative. Al di là delle evidenze scientifiche, l’analisi del territorio resta condizionata dalla una presenza ingombrante, quella dell’Ilva. Il documentario unisce alcune testimonianze sul deleterio rapporto della fabbrica con la città e la speranza di trovare sollievo in un bagno ristoratore. Nel ritmo asseconda i tempi dell’estate, reso prudente dal caldo, prima di riempirlo del rumore dei giochi, lascia alle emergenze ludiche il compito di movimentare la calma piatta. Ma pianta i semi della questione dirimente, cioè l’impatto ambientale e le conseguenze sulla salute dei cittadini dell’acciaieria, responsabilità insabbiate per decenni su precisa volontà politica. Risposte indispensabili e punto di partenza verso una nuova idea di futuro. Merita una citazione per finire il film di apertura della kemesse Into the ice di Lars Ostenfeld, ambientato in Groenlandia, sul fenomeno dello scioglimenti dei ghiacciai, sia per l’importanza fondamentale del tema sul benessere del pianeta, che per le riprese strepitose in condizioni oggettivamente complicate.

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