Visions du Réel 2022 – Nuove vie di fuga

Il Festival di Nyon traccia una mappa di storie di grande significato umano e politico. Nel concorso internazionale si affrontano molti temi: l’immigrazione, le dipendenze, la famiglia, la comunità.

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Educazione, rispetto, diritti, controllo, fuga. Le tematiche del Concorso Internazionale di Vision di Réel offrono una sintesi complessa, gettano sul mondo uno sguardo solidale, aperto, attento, per diffondere idee, concetti, stili di vita alternativi e talvolta radicali. Il tentativo critico di riflettere dentro una realtà ormai succube di un pensiero sterile, semplificato ad uso e consumo dei social. Nel panorama del Festival bisogna invece immergersi. Delegare la fretta ad altri e concedersi il tempo di riflettere. Nel concorso internazionale trovano spazio opere diverse tra loro, modelli lontani nello spazio, eppure legati da un filo che corre lungo il pianeta, la voglia di raccontare un problema, di suggerire una soluzione. O almeno di teorizzarla, nel rifiuto di un atteggiamento supino.

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Chaylla di Clara Teper & Paul Pirritano affronta una questione spinosa, quello della violenza subita da una donna all’interno di una coppia, con l’aggravante di evitare ripercussioni negative sui figli nati dalla relazione. Il diario doloroso della ragazza, sottolineato dalla fragilità emotiva rigata di pianto, segue un iter incerto. Da un lato la speranza di ricucire un rapporto considerato importante, dall’altro la necessità di scappare dagli insulti e dalla brutalità, accentuate dalla droga e dal consumo di alcolici. Di una dipendenza da gioco d’azzardo soffre invece il padre di Elvis A-Liang Lu, autore di A Holy Family, ritratto intimo di una famiglia taiwanese. Una madre irreprensibile verso il dovere al lavoro ed al culto degli antenati, un padre accanito scommettitore e lavativo, ed uno dei fratelli impegnato sui campi a trasformare la disastrosa eredità paterna in uno stimolo per ottenere un riscatto sociale. Un mondo da cui il regista si era allontanato e dove è tenuto a tornare dopo una richiesta di aiuto. Nel quale non trova niente di inaspettato, intendiamoci, niente di sorprendente, solo le prevedibili situazioni di disastro morale come anticamera di un collasso fisico. Con grande efficacia però ne definisce i contorni, traccia delle fisionomie empatiche dei caratteri, scopre dei dettagli importanti, e lascia un quadro interessante da osservare su amore e abnegazione.

Éclaireuses di Lydie Wisshaupt-Claudel è ambientato a Bruxelles, dove due donne lottano per il loro centro di accoglienza, un istituto educativo non ortodosso, che ammette dei ragazzi arrivati da una guerra o in fuga dalla povertà. Un lavoro non allineato, propenso a sperimentare, impegnato a comprendere in profondità le esperienze terribili portate con sé e non a pensare di rimuoverle con qualche libro e poche parole sconosciute. Le riprese documentano le reazioni all’interno della scuola, aprono spiragli di condivisione sui traumi, cercano in territori della memoria resi incandescenti dal dolore. Alle immagini esperienziali seguono i passaggi burocratici, fatti di riunioni e telefonate, per dimostrare la bontà del metodo ed ottenere una linea costante di finanziamento. Ancora il Belgio offre lo spunto per raccontare le vicende di una famiglia Siriana costretta ad abbandonare la propria vita, la propria casa, con una borsa piena di ricordi per non dimenticare le cose importanti. Ma vie en papier di Vida Dena è il diario animato del loro nuovo presente, stretta dentro quattro mura a Bruxelles, in un paese estraneo ad ascoltare dalla TV i bollettini dei massacri dal fronte. Per le due giovani ragazze di casa è però anche il momento di sognare il futuro, con i colori radiosi di un’ambizione ad un posto di prestigio o soltanto il desiderio di costruire un’esistenza normale dopo i traumi del passato. Una storia di immigrazione è anche quella di Tizian Büchi, L’îlot, un’isola appunto di un quartiere di Losanna nel quale due vigilantes hanno il compito di sorvegliare sulla tranquillità del posto. Il luogo riprodotto sullo schermo è sospeso, cattura delle parole durante incontri casuali, ascolta i rumori ed il silenzio, lascia umano e non umano confondersi fino a perdere di peso, e toccare l’incoerenza di un mistero sotto un cielo palpitante di stelle. Una luce proiettata nella notte a cercare qualcosa di nascosto al Sole.

Steel Life di Manuel Bauer rappresenta un’estetica sociale con il ritratto di una piccola cittadina mineraria in Perù. L’industria del carbone è l’unico mortificante motore di sviluppo in un contesto povero di alternative. Le storie dei suoi abitanti presentano un quadro veritiero e senza sbavature, rese dall’abitudine meccaniche e velate di rassegnazione. Ma oltre il primo piano, ad un’occhiata meno distratta dalla polvere, arriva l’imponenza delle Ande attraversata sui binari, fino a scendere sul Pacifico per finire tra le onde dell’oceano. Dal mare arrivano anche i protagonisti di Dogwatch, diretto da Gregoris Rentis, che hanno passato la vita a dare la caccia ai pirati somali. Qualche anno fa, le acque dell’Oceano Indiano erano infestate, un fenomeno di così ampia portata da portare addirittura all’intervento della Nato. Ora il problema si è attenuato, e gli uomini restano a terra in attesa di un nuovo impiego, con il tempo di riconsiderare la propria vita, all’interno di una famiglia spesso lontana. Il film si muove tra le sfiancanti lezioni di training armato, gli ordini urlati per simulare un pericolo, e il bisogno di un piano di riserva per quando sarà giunto il momento di cambiare mestiere.

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