Il Festival di Nyon, tra mondo interiore ed esteriore, racconta di una realtà in perenne e inevitabile trasformazione, dando conferma di una libertà di sguardo che ha ancora pochi eguali
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Lo raccontavamo già lo scorso anno e non possiamo che darne ulteriore conferma. Il Visions du Réel di Nyon è un festival dal respiro particolare, forse unico nel suo genere. Da sempre particolarmente attento a selezionare artisti e opere che, da innumerevoli prospettive, siano in grado di osservare e ragionare del presente con lucidità e coraggio. L’edizione 2025, che ha presentato 154 film provenienti dal numero record di 57 paesi, ha dato prova di saper raccogliere l’eredità delle precedenti e rilanciare le ambizioni di una manifestazione che continua a evolversi. Provando a costruire un discorso cinematografico che, in un’epoca di costanti incertezze, ha fatto del “mutare” il fil rouge di un ricco assortimento di titoli.
Si erge ad esempio come un monolite di kubrickiana memoria il razzo di 50 piani targato SpaceX che, pronto ad essere lanciato nello spazio, incombe sul panorama della comunità texana di Boca Chica – circondata dal Rio Grande e dal golfo del Messico e selezionata da Julien Elie come set di Shifting Baselines, suo nuovo lungometraggio. E ad osservarne le monumentali fattezze e ambizioni, il regista fotografa abitanti della zona, appassionati di lanci, novelli mad max e scienziati, per tentare di tessere una affascinante ragnatela di opinioni che possa in qualche modo attraversare l’”intero” spettro dell’esperienza umana – tra chi loda l’impeto colonizzatore del miliardario Elon Musk (“We are explorer”) e chi invece denuncia il colossale cortocircuito socio-ambientale che l’azienda dell’imprenditore contribuisce ogni giorno a ingigantire. Shifting Baselines diviene così a poco a poco la storia di una terra che ne sogna un’altra; e nel sognarla distrugge se stessa. Mentre la verticalità di un fuori campo al momento irraggiungibile si scontra con l’orizzontalità del formato cinematografico.
All’interno dei cui confini, esaltato da un bianco e nero che assapora ogni intermedia sfumatura di grigio, il film di Julien Elie racconta insomma una realtà che cambia troppo in fretta, spazza via ecosistemi e modifica perfino l’assetto celeste. Una realtà nella quale ci ritroviamo a osservare immagini che sembrano provenire da un altro mondo e che invece svelano solamente lo sfacelo del nostro.
Di immagini e di corpi, nonché della profonda interconnessione esistente tra le prime e i secondi parla Je n’embrasse pas les images, lungometraggio del francese Pascal Hamant scelto tra le proposte della Burning Lights Competition. Dove a imperversare, lungo i 76 minuti di durata del film, è infatti, non a caso, lo spettro del padre del regista, morto quando quest’ultimo aveva solo 14 anni e il cui corpo – disteso su di un tavolo e coperto da un lenzuolo bianco – è l’immagine/tormento che infesta la mente dell’autore. Vagando qui e là tra ricordi, fotografie e alcuni filmati, Hamant riflette dunque su quella zona grigia a metà tra la materialità del corpo e l’immaterialità dell’immagine, ragionando sul momento di passaggio tra l’una e l’altra condizione e sull’irriproducibilità di determinati istanti. Racconta momenti di vita quotidiana, attimi decisivi del suo processo di crescita e maturazione, l’angosciante approssimarsi della scomparsa del padre; sfiorando le sue ossessioni per le figure di Marilyn Monroe e Ayrton Senna che, nella loro tragica condizione di icone bruciate anzitempo, divengono ulteriori simboli di un amore/odio verso ciò che esiste solo all’interno dello spazio di una inquadratura per poi scomparire.
Traiettorie diverse, forse addirittura opposte, sono invece quelle descritte da The Attachment di Mamadou Khouma Gueye e The Mountain Won’t Move di Petra Seliškar, entrambi presentati nell’ambito del Concorso Internazionale Lungometraggi. Due mondi distanti, ritratti in un momento di passaggio. Da una parte il quartiere suburbano di Guinaw Rail in Senegal inquadrato in un momento di mutazione profonda, viscerale. Dall’altra le montagne della Macedonia del Nord, dove il tempo scorre sempre uguale al giorno precedente, in un loop immobile e apparentemente infinito. Da un lato il progetto politico del nuovo treno espresso regionale che minaccia di distruggere un quartiere nel nome del progresso, dall’altro un eden che rischia di trasformarsi in una prigione a cielo aperto. Mamadou Khouma Gueye e Petra Seliškar, alle prese con due soggetti che, posti agli antipodi, sembrano però in più di un’occasione riuscire a sfiorarsi, sfruttano i propri protagonisti (la madre del regista in un caso, i 5 fratelli Zekirov nell’altro) per costruire una riflessione che è innanzitutto un ragionamento su due spazi. E su come la presenza umana incida, inevitabilmente, sulla concezione di quello spazio, nonché sulla (im)possibile trasformazione dello stesso. Il terrore del nuovo che avanza e che vuole impietosamente travolgere il vecchio si scontra non a caso con la sensazione di apnea che una vita dai ritmi cadenzati, lontana dalla civiltà, può comportare. In un curioso bilanciamento cinematografico che, seppur casuale, si crogiola nel delicato equilibrio tra anelito al movimento e voglia di fissità.

Una visione simile è anche quella proposta da Roland Edzar nel suo La Montagne d’or, che prende forma nel cuore del deserto del Niger. Seguendo Moussa e i suoi compagni minatori in una quotidianità segnata dall’assenza – di acqua, di risorse, di certezze – il film racconta un viaggio che non è solo geografico ma soprattutto interiore. Partiti alla ricerca di un giacimento d’oro, questi uomini sembrano in realtà inseguire un’altra promessa: quella di una vita diversa, più grande di quella lasciata indietro. In questa corsa contro il nulla, Edzar – cresciuto nei paesaggi sahariani che ora filma – non si limita a osservare: si immerge, vive, condivide. E nel momento in cui offre a questi uomini la possibilità di raccontare se stessi attraverso la macchina da presa, trasforma il loro faticoso presente in materia cinematografica, senza mai perdere il contatto con la verità. Lavorando per sottrazione e spogliando il mito dell’oro fino a lasciar emergere, nel palmo di una mano, l’umanità della ricerca.
A spingere l’acceleratore sul concetto di sperimentazione è stato però soprattutto Croma di Manuel Abramovich, piccola perla di questo Visions du Réel presentata in anteprima mondiale all’interno della sezione Burning Lights. In poco più di un’ora di girato, infatti, il regista prova qui a ragionare sul concetto di genere, alternando momenti di stasi/intervista a frangenti di totale immersione naturale, nel tentativo di interrogare e lasciare poi sfogare le tensioni identitarie insite in ciascuno dei soggetti selezionati. Abile a edificare la struttura del proprio lungometraggio attorno al meta-strumento del green screen – e al contempo perfettamente consapevole dell’immediatezza teorica di un’operazione di questo tipo – il giovane cineasta invita infatti i suoi protagonisti e il suo pubblico a esaminare la limitatezza di un linguaggio e di un pensiero costruito solo su convenzioni sociali e abitudini apparentemente inscalfibili, spronandoci invece a proiettare su noi stessi le immagini che più aderiscono alle nostre più intime necessità e a lasciarci completamente andare a una danza che diviene ode alla libertà del singolo. Senza la quale ogni possibilità di comunità non può che fallire o implodere su se stessa.
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