Visions du Réel: visioni del racconto

A Nyon 2015 si fa strada una linea dominante che privilegia con forza il racconto, il cinema del reale come spazio e dispositivo del racconto contemporaneo.

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Un anno dopo l’edizione del ventennale, Visions du Réel, il festival del cinema documentario di Nyon, ritorna con una edizione come al solito numericamente ricca di film e percorsi (come gli atelier dedicati ai vari autori, che da tempo costituiscono uno dei punti di forza del festival, gli omaggi e le numerose sezioni) e che sempre di più marcano una linea che attraversa potentemente il cinema contemporaneo.

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Nella varietà delle proposte si fa strada infatti una linea dominante, testimoniata tra l’altro dal palmares di quest’anno. Una linea che privilegia con forza il racconto, il cinema del reale come spazio e dispositivo del racconto contemporaneo. In moltissimi dei film presentati al festival la dimensione narrativa diventava ben presto la posta in gioco più evidente, un filo comune tra film anche molto diversi gli uni dagli altri.

Ma quale narrazione? Racconti di vite, passati e presenti. Storie individuali o collettive. Storie di corpi o di oggetti. Sempre di più il documentario a Nyon si presenta come lo spazio dove ricostruire la possibilità della narrazione laddove la fiction mostra sempre più i propri limiti, i propri cliché. In molti film di Nyon emerge chiaramente la volontà e il desiderio di raccontare, di ricostruire i fili interrotti di storie dell’umano. È l’uomo al centro del desiderio di narrazione, occorre dunque abbassare lo sguardo e ritrovare l’umano.

In film come Au crépuscule d’une vie di Silvayn Biegeleisen, sul rapporto di un uomo con la propria madre malata (ma che dimostra una vitalità senza pari), o come Madre de los dioses di Pablo Aguero e Icaros di Pedro Gonzalez-Rubio (entrambi su figure di uomini e donne che fuggono dalla civiltà per ritrovare una sorta di arcadia perduta in luoghi lontani), Now Cow on the Ice di Eloy Dominguez Serén (in cui lo spaesamento linguistico di uno spagnolo in Finlandia diventa il racconto della propria ricerca di identità); così come in Casa Blanca di Aleksandra Maciuszek (il rapporto tra un ragazzo down e sua madre anziana a Cuba), Coming of Age di Edkins Teboho (l’ultima estate prima del passaggio all’età adulta di un gruppo di ragazzi africani), Seuls, Ensemble di David Kremek (la vita di un gruppo di pescatori francesi nei mari del nord), Ice Girls di Lin Sternal (su due piccole atlete che gareggiano nei campionati di pattinaggio artistico), al di là delle differenze, al di là di variazioni di forma, il movimento si rivela comune: la forma si adegua al corpo e all’indagine sull’Io che è al centro, la sua porzione di vita ripresa diventa allora il centro intorno al quale ogni immagine si organizza.

C’è in questo movimento la volontà di rintracciare una direzione chiara, ma al tempo stesso chiusa, in fondo come indicatrice di un livello di base dello sguardo documentario. Come se questa volontà forte nel riprendere l’umano (certo comprensibile in un’epoca del cinema dove domina il post-umano dell’immagine) finisca per limitare le possibilità di esplorare i limiti stessi della narrazione, vale a dire i limiti stessi del cinema del reale.

homelandSono proprio due film presenti a Nyon a mostrare questa possibilità. Due film che spingendo fino in fondo la direzione del racconto, ne riscoprono l’infinita complessità. Due film presenti in due sezioni diverse, accumunati anzitutto dal fatto di sfidare le convenzioni spettatoriali attraverso la durata e la forma.

Homeland di Abbas Fahdel, vincitore del premio per il miglior lungometraggio è un film monumento prima ancora che monumentale. Diviso in due parti, per una durata totale di 334 minuti è il racconto filmato dal regista del suo ritorno in Irak dall’inizio della Guerra del Golfo fino alla conclusione (puramente formale) del conflitto e alla difficile strada verso una ricostruzione in un Paese che si percepisce occupato. È proprio la durata del film a conferire a Homeland uno spazio/tempo particolare. Il racconto ha come centro di propulsione il regista stesso, che filma la propria famiglia, i propri vicini, i passanti, le persone che incontra. C’è un Io che si fa punto di origine di ogni sguardo, ma questo sguardo non rimane presso di sé, ma al contrario innesca un movimento infinito di irradiazione. Ogni incontro, ogni conversazione diventa il racconto (un nuovo racconto) parziale, di qualcun altro che si rivela di fronte alla camera. Ognuno racconta, la parola scorre continua, insieme ai gesti, al mostrarsi di fronte alla camera, come parti di un’entità collettiva che si forma e si rivela attraverso la narrazione. L’Io del regista è allora il dispositivo attraverso cui si configura un Io collettivo, un racconto a più voci, la frammentata identità di un territorio ferito. La durata del film amplifica e rende possibile questo movimento, ne mostra le condizioni di possibilità e al tempo stesso i limiti. Mostra soprattutto una volontà politica, secondo la quale ogni racconto individuale esiste in quanto connesso ad altri racconti, ogni esistenza esiste in quanto subisce ed agisce in un contesto di relazioni e di connessioni. Il racconto è la forma della collettività.

the charles bukowski tapesSpeculare e opposto è il movimento attuato da The Charles Bukowski Tapes di Barbet Schroeder (che ha aperto la retrospettiva dedicata al regista francese), straordinario film-non film, formato da ore e ore di conversazione filmata dal regista con lo scrittore americano. Nei 240 minuti di durata del film, Schroeder monta, secondo la logica dell’accumulo, le riprese dell’intervista quasi sempre in primo piano, lasciando che lo spazio dell’immagine sia occupato quasi per tutta la durata del film dal viso e dalle mani di Bukowski. È il set che fonda ogni racconto, il viso; lo spazio a partire dal quale la parola diventa flusso, confessione e riflessione, ironia e sarcasmo, memoria e anticipazione, schermo e riflesso.

Bukowski parla, risponde alle domande, facendo dei suoi discorsi l’insieme dei frammenti di ogni narrazione possibile. Si può entrare nel film non-film in ogni momento e cogliere allora il senso di ogni narrazione, di ogni racconto: che esso non è fatto per essere chiuso, non si sviluppa necessariamente attraverso un inizio, un centro e una fine, ma può essere colto anche da un singolo frammento, da una porzione, da un’immagine. Letteratura, cinema, poesia, riflessioni sulla propria vita e sul mondo. l’idea di natura e lo spazio sempre magico e decadente della città. La scrittura, la notte, l’amore, il desiderio negato e impossibile.

L’Io di Bukowski tracima, irrompe, deborda in ogni momento, disegnando un mondo, un universo visto attraverso i suoi occhi. Tutto emerge nell’intervista fiume, nel film non-film. È proprio in questo allora che il film non-film di Schroeder è speculare al film di Fahdel: i movimenti di riflettono, si rovesciano, ma in entrambi c’è in gioco una esplorazione della narrazione e del racconto capace di metterne in atto la sua più intima verità: che ogni racconto è individuale e collettivo, aperto e potenzialmente infinito. Tutto il resto è finzione.

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