"Viva Sordi", il cinema nascosto.
Per Giusti (da accomunare in questo ad Enrico Ghezzi)il film non deve resistere al tempo, ma modificarsi nel tempo, essere rifatto/ accelerato/ rallentato, insomma, lavorato, con ogni mezzo, perché solo in questo modo è possibile riaffermarlo come presenza.
La meglio gioventù
Accarezzata come continuazione della sua immagine nel tempo di un'unica giornata (di fatto l'omaggio si è articolato in tre diversi momenti temporali che prendono in esame le tre stagioni della vita/carriera di Sordi, sino ad arrivare direttamente al 2003), lo sguardo televisivo si è spezzato in mille rivoli di tempi improvvisamente sdoppiati, come alla presenza di specchi incrinati capaci di far saltare ogni proporzione unitaria (si è passati da immagini della vita di Alberto, a quelle dei suoi film, ma anche adottando un procedimento contrario, dal set, alla vita) e di infrangersi contro una voluta mancanza di unitarietà. La televisione è abituata a mostrare l'evidente immediatezza/necessarietà del corpo intrappolato in precise funzioni (far ridere, far pensare, far immaginare), mentre Giusti lavora su un versante opposto: si tratta di tirare in ballo l'immagine ampiamente codificata di un attore con cui ci siamo identificati un po' tutti, per poi contaminare questo aspetto del visibile (il soldato caciarone/eroico de La grande guerra, l'incallito seduttore, il vigile ottuso) con piccole derive presenti all'interno della stessa immagine (il ricorrere continuo di catture di fuoriprogramma, di battute fatte tra un ciak e l'altro, la presentazione ufficiale dell'opera in questione), con una continuità folle del gesto ( si vede Sordi cantare una canzone che viaggia come magicamente da un set televisivo all'altro, partendo da Studio Uno dei Sessanta, per arrivare al programma di punta della RAI dell'anno scorso) che spazializza un itinerario fisico assolutamente imprevedibile, esposto a variazioni di tono e di luce, sempre sul punto di erompere nell'esibizione di un quadro visivo rischioso, proprio perché soggetto ad uno slittamento mutante senza fine. Si parte dai primi film in cui Sordi fa una comparsa, passando per la stagione d'oro della commedia all'italiana, fino ad arrivare alle opere degli ultimi vent'anni, in veste di attore e di regista. Ma è un andamento in cui, come accennato in precedenza, si continua a produrre uno scarto rispetto alla fissità dello sguardo-repertorio. Ecco allora che le opere di Monicelli e di Risi (fisse in diagonali cristallizzate e solide) si trasformano in quello che forse non sono mai state, e incominciano così a danzare su crinali irriconoscibili (l'immagine di Sordi in Una vita difficile che lentamente sfuma nel diario di lavorazione del film o meglio ancora in un inserto visivo che non c'entra apparentemente nulla), proprio perchè oscillanti tra il cinema, la televisione e il documentario, non curandosi dunque minimamente di essere collocate in una accezione immediata e subito leggibile. Giusti incrocia il tempo della finzione con quello della preparazione di quest'ultima, tramite un'architettura segnica assolutamente orizzontale (non c'è differenza tra cinema e vita proprio perché estremi riconducibili ad un'unica matrice che è quella della rappresentazione), condotta dalle retrovie di un gesto filosofico che ridà corpo ad una vera e propria illusione retrospettica (quella del rivedersi attraverso un corpo, lungo il corso del tempo), coincidente con la volontà di agire direttamente il cinema, confondendolo, inquinandolo.
Travestendolo.