"Viva Sordi", il cinema nascosto.

Per Giusti (da accomunare in questo ad Enrico Ghezzi)il film non deve resistere al tempo, ma modificarsi nel tempo, essere rifatto/ accelerato/ rallentato, insomma, lavorato, con ogni mezzo, perché solo in questo modo è possibile riaffermarlo come presenza.

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La meglio gioventù di Marco Giusti è molto lontana da quella celebrata/ acclamata/ festeggiata di Giordana. E' una gioventù che ha qualcosa a che fare con l'infanzia cinematografica di un Paese, con un modo di vedere le cose che non potrà mai esaurirsi nel rispecchiamento coatto di una forma di reale. Ce lo ha dimostrato l'altra domenica Rai Due che si è improvvisamente trasformata in proiettore fantastico di un cinema davvero capace di uscire fuori dal cinema, di sostituirsi alla normalità fruitiva della domenica (pranzo in famiglia, film al cinema, oppure vhs/dvd d'occasione da vedere con amici e parenti), per avventurarsi in silenzio in quel luogo sempre più battuto in cui il cinema non è uno schermo, un proiettore, una tenebra, ma un lampo accecante, un'immagine sepolta, uno sguardo che si posa magicamente laddove non immagineremo mai. Viva Sordi (questo il nome di quello che forse è il film italiano più intenso della stagione) è un programma, una striscia continuata per quasi dieci ore, un'ipotesi di sguardo in progress che mima l'occasione (quella degli ottantatrè anni di Alberto Sordi, purtroppo da quest'anno festeggiabile solo tramite la sua immagine video), per dirci invece che il cinema è l'oggetto smaterilizzabile per eccellenza dei nostri giorni, un impasto degradabile/corruttibile da reinventare ogni volta, da mangiare all'infinito, senza preoccuparsi di farlo in un luogo preciso, all'interno di un determinato spazio. E' una linea di pensiero questa, un progetto a lungo termine già peraltro accennato in Stracult (officina rutilante di smascheramenti, condotti tramite un affiorare dell'immagine sull'immagine), in cui si afferma proprio la consumazione orgiastica del vedere tramite associazioni visive, ripescaggi impossibili, e aperture di senso che rilanciano il puro piacere della visione per se stessa. La tendenza espressa allora da Giusti (da accomunare in questo ad Enrico Ghezzi) è allora questa: il film non deve resistere al tempo, ma modificarsi nel tempo, essere rifatto/ accelerato/ rallentato, insomma, lavorato, con ogni mezzo, perché solo in questo modo è possibile riaffermarlo come presenza (e beninteso, non stiamo trattando soltanto di film, ma di corpi in senso lato, di personaggi, maschere, tipi, e nondimeno generi), a dispetto di un'attualizzazione che non può che denunciare uno scacco, un'impossibilità, una mancanza. Sordi è morto da ormai qualche mese, e, pur calandosi in un contesto di celebrazioni nazionali legate al mancato compleanno, Marco Giusti e Roberto Torelli lo hanno trasformato in una sorta di corpo replicante/immagine di un intero Paese, mostrando come forse nessuno è mai riuscito a fare in precedenza proprio il suo senso di appartenenza ad una Storia, che è poi quella delle nostre abitudini, della nostra lingua, del nostro cinema infine.

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Accarezzata come continuazione della sua immagine nel tempo di un'unica giornata (di fatto l'omaggio si è articolato in tre diversi momenti temporali che prendono in esame le tre stagioni della vita/carriera di Sordi, sino ad arrivare direttamente al 2003), lo sguardo televisivo si è spezzato in mille rivoli di tempi improvvisamente sdoppiati, come alla presenza di specchi incrinati capaci di far saltare ogni proporzione unitaria (si è passati da immagini della vita di Alberto, a quelle dei suoi film, ma anche adottando un procedimento contrario, dal set, alla vita) e di infrangersi contro una voluta mancanza di unitarietà. La televisione è abituata a mostrare l'evidente immediatezza/necessarietà del corpo intrappolato in precise funzioni (far ridere, far pensare, far immaginare), mentre Giusti lavora su un versante opposto: si tratta di tirare in ballo l'immagine ampiamente codificata di un attore con cui ci siamo identificati un po' tutti, per poi contaminare questo aspetto del visibile (il soldato caciarone/eroico de La grande guerra, l'incallito seduttore, il vigile ottuso) con piccole derive presenti all'interno della stessa immagine (il ricorrere continuo di catture di fuoriprogramma, di battute fatte tra un ciak e l'altro, la presentazione ufficiale dell'opera in questione), con una continuità folle del gesto ( si vede Sordi cantare una canzone che viaggia come magicamente da un set televisivo all'altro, partendo da Studio Uno dei Sessanta, per arrivare al programma di punta della RAI dell'anno scorso) che spazializza un itinerario fisico assolutamente imprevedibile, esposto a variazioni di tono e di luce, sempre sul punto di erompere nell'esibizione di un quadro visivo rischioso, proprio perché soggetto ad uno slittamento mutante senza fine. Si parte dai primi film in cui Sordi fa una comparsa, passando per la stagione d'oro della commedia all'italiana, fino ad arrivare alle opere degli ultimi vent'anni, in veste di attore e di regista. Ma è un andamento in cui, come accennato in precedenza, si continua a produrre uno scarto rispetto alla fissità dello sguardo-repertorio. Ecco allora che le opere di Monicelli e di Risi (fisse in diagonali cristallizzate e solide) si trasformano in quello che forse non sono mai state, e incominciano così a danzare su crinali irriconoscibili (l'immagine di Sordi in Una vita difficile che lentamente sfuma nel diario di lavorazione del film o meglio ancora in un inserto visivo che non c'entra apparentemente nulla), proprio perchè oscillanti tra il cinema, la televisione e il documentario, non curandosi dunque minimamente di essere collocate in una accezione immediata e subito leggibile. Giusti incrocia il tempo della finzione con quello della preparazione di quest'ultima, tramite un'architettura segnica assolutamente orizzontale (non c'è differenza tra cinema e vita proprio perché estremi riconducibili ad un'unica matrice che è quella della rappresentazione), condotta dalle retrovie di un gesto filosofico che ridà corpo ad una vera e propria illusione retrospettica (quella del rivedersi attraverso un corpo, lungo il corso del tempo), coincidente con la volontà di agire direttamente il cinema, confondendolo, inquinandolo.


Travestendolo.

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