Vivarium, di Lorcan Finnegan

Passato tra le proposte della Semaine de la Critique dello scorso Festival di Cannes, Vivarium si pone tra la fantascienza distopica e l’horror, tenendo al centro un forte postulato “magrittiano”

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«Oggi faremo finta di essere degli alberi», dice Gemma rivolgendosi ai bambini della classe nella quale insegna. Il fruscio delle foglie mosse dal vento, poi la tempesta improvvisa: così la legge di natura manifesta la propria presenza, alternando gioie inaspettate ad eventi impietosi, qualche volta ingiusti. “Imitazione” è la parola chiave. Quella della natura esterna prima di tutto; poi, quella che Gemma e Tom saranno costretti a mettere in atto nel corso della loro esperienza di prigionia a Yonder. La furia sociale del “non restare indietro” quando si tratta di mettere su famiglia, conduce la giovane – forse, fin troppo giovane – coppia di fidanzati a spingersi verso l’inferno della ricerca immobiliare, dove il traghettatore di turno, un Martin totalmente sui generis – neanche fosse uscito da un allevamento di perfetti robot d’agenzia – , è lì pronto ad aspettare i primi malcapitati venuti a reclamare il solito nido d’amore. Yonder – termine emblematico che si riferisce a un indeterminato spazio “al di là” o del “laggiù” – rappresenta una tradizionale periferia residenziale modello Suburbicon. Tutto ciò che si potrebbe desiderare, dunque, posto peraltro a una “giusta distanza”: quality family homes. Forever. Finnegan (Without Name, 2016) lascia ancora un po’ di tempo per sognare ai suoi ironici ragazzi innamorati. Per un attimo, infatti, il film galleggia nell’interspazio – tra le righe dell’horror e della fantascienza distopica – di una commedia leggera, con tanto di canzoni canticchiate all’unisono durante il viaggio verso la casa da visitare. Ma non appena l’automobile di Jesse Eisenberg e Imogen Poots oltrepassa la soglia del sobborgo, tono e colori cambiano. Forever. All’improvviso sembra di stare nella gotica Florida “pastello” di Tim Burton. Ma con le case molto più sbiadite e moltiplicate all’infinito. Un labirinto in un’unica tonalità verde tenue, all’interno del quale non circola anima viva; dove il cielo azzurro inquieta almeno quanto quello riprodotto da Magritte dentro l’occhio dalla pupilla oscurata.

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Gemma e Tom vengono accompagnati da Martin (Jonathan Aris) al civico 9, la casa perfetta per una giovane famiglia nascente. Nei fatti, una casa vacanze confezionata di tutto punto, pronta per essere abitata da subito – fragole e champagne sono già in fresco! – e per tutta la vita. Ma se l’agente immobiliare robotico o la sfilza di case perfettamente identiche calate in un silenzio innaturale non fossero elementi già sufficienti per aspettarsi il peggio, Finnegan rincara la dose, addobbando le pareti della villetta con quadri che sono, di fatto, mere raffigurazioni della casa stessa. Pure imitazioni di qualcosa di già visto; copie di copie di un reale consumato a furia di essere prolificato in ogni suo aspetto. È ancora il concetto di imitazione a riecheggiare tra le vie spoglie del quartiere verde. È ancora magrittiano il postulato: per le eclatanti tonalità fredde dell’immagine; per l’ambiguità di ciascuna situazione; per il reale sintetico riprodotto su piccola scala, decontestualizzato fino all’estremo straniamento, per far sì che si riveli il “mistero” umano, impossibile da decifrare. E dove emerge sempre più chiaramente che tra la realtà umana e la sua mera duplicazione in vitro non possa sussistere alcuna vera coincidenza. «Non sono la tua fottuta madre», quindi; proprio come la pipa rappresentata in immagine non era la pipa reale, a dispetto di ogni presunto realismo apparente o etichetta linguistica associata all’oggetto. Gemma e Tom finiranno per prendere in carico un ragazzino “mutante” che – non a caso – non fa che guardarli e riprodurre i loro gesti e discorsi, nell’intento di imparare l’attitudine umana, anche nei più radicati cliché familiari («Sei di nuovo sconvolta, madre?»). Ma il cibo non ha sapore, la terra è di un materiale strano, l’istinto materno è finto e inculcato da fuori, il sole è fin troppo perfetto, come quello della Seahaven Island in cui viveva Truman Burbank, in un altro “livello” della finzione. In tutti questi casi, vige e si alimenta giorno per giorno il sogno della fuga da una qualsiasi Revolutionary Road, a riprova – ancora e ancora – che la vita non si replica in copia carbone. Finnegan lo dice in tutti i modi, tenendosi sempre sul confine tra l’ironico e il soffocante, ma perdendo un po’ d’acume al momento di tirare le somme della storia. Lo dice con le sue nuvolette “perfette e nauseanti” o con la bella danza notturna sotto i fari dell’auto, forse l’unico momento davvero vissuto di tutta la vicenda. Oggi faremo finta di essere (tornati) reali.

Regia: Lorcan Finnegan
Interpreti: Jesse Eisenberg, Imogen Poots, Jonathan Aris, Senan Jennings, Eanna Hardwicke
Distribuzione: Notorious Pictures
Durata: 97′
Origine: Irlanda/Belgio/Danimarca, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.06 (50 voti)
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