Vulcano, di Jayro Bustamante

Bustamante rappresenta con una chiara vocazione documentaristica e con orgoglio una serie di comportamenti che sono messi a repentaglio dalla civiltà occidentale e dal progresso

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I dati biografici di Jayro Bustamante dimostrano un forte legame con la materia che il suo film ha deciso di trattare: una debolezza che lo ha portato a tradire l’obbligo dell’equidistanza a cui tutti gli antropologi dovrebbero attenersi. Ixcanul (Vulcano) è la storia di formazione di una giovane contadina della foresta guatemalteca: è una delle tante vicende simili che il regista ha ascoltato da quando è tornato a fare l’educatore in un villaggio della sua regione d’origine. La famiglia della protagonista appartiene ad una realtà che raramente è stata mostrata dal cinema e quasi mai è stata affrontata da una prospettiva interna.

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Il ritmo prevedibile della trama viene perdonato dal nobile intento di voler documentare gli usi e i costumi di un piccolo nucleo sociale che vive al di fuori persino della rarefatta società centroamericana. La curiosità verso il mondo esterno è il sentimento predominante che turba la naturale crescita di Maria e la distoglie da un futuro che le è stato già scritto per perpetuare le tradizioni. Il film inizia con la sua festa di fidanzamento: la ragazza è in età da marito e i suoi genitori l’hanno data in sposa al solido capobracciante della piantagione di caffè in cui vivono. Il desiderio di cementare con ixcanul un matrimonio le posizioni reciproche si scontra con la sua infatuazione per un giovane campesino che la seduce e le promette una fuga americana.

Ixcanul rappresenta con orgoglio una serie di comportamenti che sono messi a repentaglio dalla civiltà occidentale e dal progresso. Il suo punto di vista verso questi rituali millenari è talmente forte da portare Jayro Bustamante a difendere degli atteggiamenti comunemente negativi come il cinico pragmatismo della madre e a biasimare bonariamente gli eccessi della superstizione. Maria discende dalla gloriosa cultura maya e ne ha conservato l’antica lingua k’iche’ ma la loro ostinata ignoranza verso lo spagnolo li costringe a temere la città con la fondata paura di ricervere i suoi abusi. La donna dovrà apprendere questa necessità di difesa proprio attraverso le nefaste conseguenze del suo desiderio di autonomia e di ribellione. I loro bisogni elementari non possono fronteggiare la malizia e la crudeltà di una comunità più sviluppata ma anche più corrotta. Il mondo di sua madre non va oltre il soffocante orizzonte del vulcano che domina il loro villaggio di raccoglitori ma questo confine molto stretto è anche un’indispensabile barriera protettiva. Questa ambivalenza si riflette sull’uso dell’idioma autoctono: l’ostinata demarcazione è anche lo strumento attraverso cui i contadini sono continuamente sfruttati e vengono crudelmente truffati.

Il film procede per piani fissi che hanno una chiara vocazione documentaristica ma ripercorrono il percorso educativo che la ragazza deve completare per diventare donna: la continua presenza della madre potrebbe apparire invadente ma è la sua assenza che spinge la figlia a commettere un errore di valutazione. Il suo ruolo non è solo quello di proteggerla fino al matrimonio ma anche quello di insegnarle ad essere una brava massaia e una brava moglie. La nostra distanza culturale sul carattere virtuoso di queste doti dimostra in modo inequivocabile come siano in via d’estinzione: una rivalutazione è possibile soltanto davanti alla minaccia della sopravvivenza. Jayro Bustamante arriva alla rassegnata conclusione che forse la redenzione del velo da sposa è l’unica forma di salvezza possibile.

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