W for Welles – F come falso (F for Fake)

Una comicità pura, perché è il film più puro di Welles, la sua confessione più sincera, il Welles paradossalmente più autentico, il compimento del racconto del suo autore

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L’ungherese Elmyr de Hory, straordinario pittore falsario che la fece franca per anni riproducendo capolavori dei più grandi; il giornalista Clifford Irving, imbroglione anche lui, che su de Hory scrisse il libro Fake! ma fu anche autore di una finta autobiografia di Howard Hughes; Oja Kodar, incantatrice e corpo erotico, suo nonno e la storia di un anziano Picasso di nuovo ispirato; La guerra dei mondi e gli alieni invasori del 1938 che terrorizzarono l’America. Orson Welles dirige e racconta, è dentro un set e alla moviola. Un montaggio d’incastri e di storie parallele, di autenticità e finzione; una grottesca, ironica teoria dello sguardo e dello spettatore. C’è lo sberleffo del cinema, dell’arte, a camuffare una riflessione profondissima. Un film parodia e nuovo atto d’amore. Un’opera-testamento.
Un momento, però. Un passo indietro. Dunque… Gli anni erano quelli universitari, i primi, il 2005 direi, ma deve essersi trattato di una visione per caso o per sbaglio, la noia forse, una lezione saltata all’ultimo momento. Ho visto per la prima volta F come falso – Verità e menzogne (1974) in quel periodo e questo è il dato. Probabilmente nell’“aula video” della Facoltà con i suoi computer, cuffie e DVD (molti ricavati da VHS), con almeno uno di questi elementi in salute non proprio perfetta. O magari in camera da studente fuorisede, dopo aver scoperto una videoteca romana che sembrava possedere davvero la storia del cinema. Sicuramente nessun corso monografico su Welles, piuttosto un esame durante il quale saper raccontare il cosa e il come di Quarto potere insieme a Un chien andalou, L’âge d’or, Metropolis, Tempi moderniFino all’ultimo respiro.

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F-for-FakeDi quel F for Fake non mi hanno mai chiesto nulla. Lo rivedo sul mio PC, a casa mia, oggi, e trovo le parole del regista in un’intervista di Leslie Megahey nel 1982, per il documentario della BBC The Orson Welles Story (testo che cito dal volume It’ all true. Interviste sull’arte del cinema della minimum fax): «Quando ho terminato F come falso, pensavo di aver scoperto un nuovo tipo di film, ed era il tipo di film che avrei voluto realizzare per il resto della mia vita. L’insuccesso di F come falso è stato uno dei colpi peggiori che ho ricevuto… in America e anche in Inghilterra, è stato uno dei grandi shock della mia vita. Perché pensavo di aver fatto davvero qualcosa di importante. È una forma, in altre parole, quella del saggio, del saggio personale, opposta a quella del documentario, molto diversa. Non ha nulla del documentario».
Ricordo che F come falso mi aveva soprattutto divertito, o almeno così credevo, così credo. Mi aveva spiazzato. E continua a provocare entrambi gli effetti ancora oggi, per ragioni che però mi appaiono un po’ più chiare. Perché, innanzitutto, è un film comico, di una comicità straordinariamente (auto)distruttiva, una comicità aliena, nata su un altro pianeta ma che affoga il divertissement in splendida, irripetibile, fantasiosa malinconia del mondo che s’inventa; comicità che frantuma ogni tentativo di comprenderla, inglobarla, vivisezionarla, perché lì per la prima volta e lì conclusasi, implosa nell’invenzione di nuovi linguaggi, mentre solo molti anni dopo parole e automatismi come “archivio”, come “realtà e rappresentazione”, “fiction e documentario” diventeranno vocabolario comune del cinema, dei suoi autori ma soprattutto dei suoi esegeti.

OJa_Kodar_in_F_for_FakeUna comicità pura, perché è il film più puro di Welles, la sua confessione più sincera, il Welles paradossalmente più autentico, il compimento del racconto del suo autore, il finale di un’autobiografia “mitica”, che nasce irreale (da Quarto potere) e diventa finalmente reale: questa verità, allora, è la più grande menzogna di F come falso, è dentro questo magnifico assurdo. Dentro un film composto in larga parte dalle immagini di un documentario d’inchiesta di François Reichenbach, nel 1968, su De Hory, e comprato, scene scartate incluse, da Welles che lo rimonta e ne fa qualcos’altro, un altro racconto, straordinario spettacolo di magia, con nuove sequenze girate e lui nella parte di se stesso: il Regista Orson Welles, anche lui falsario che trasforma le immagini e ne crea di nuove, prestigiatore in una stazione ferroviaria che fa sparire oggetti e li tramuta in altro per la meraviglia di un bambino; che fa sparire un corpo di un anziano coperto da un lenzuolo bianco. L’illusione come sola vera ontologia del cinema e il creatore che promette di rompere l’incanto, che promette «un’ora» di verità ma bleffa ancora.

wellesContinuo allora a leggere le parole di Welles: «Mi descrivo sempre come un ciarlatano […] era solo un trucco, come tutto quel che si vede in quel film, era un trucco, perché io non mi considero affatto un ciarlatano. […] Dicevo che ero un ciarlatano per non sembrare vanaglorioso mentre parlavo di tutti i ciarlatani che apparivano nel film. Questo è il perché dei trucchi magici e di tutto il resto[ …] ma parecchi scrittori di cinema seri hanno raccolto la cosa e versato fiumi d’inchiostro su Orson Welles come ciarlatano. “Dalle sue stesse labbra”, cose di questo tipo. Ma anche quello era un trucco. Era tutto un trucco, in quel film».
Anche qui, in queste parole, magnifico illusionista e bugiardo e attore e regista. La menzogna davanti alla verità più dolce, più fragile. Orson Welles e il cinema che non avremmo più visto.

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