W for Welles – L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons)

Mentre girava il film Welles era ancora giovanissimo (26 anni) ma è come se presagisse già la fine della sua fortuna e avesse deciso di raccontarla

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Ho visto L’orgoglio degli Amberson per la prima volta nel 1999 mentre facevo il servizio militare in quello che è stato il periodo più strano della mia vita. Mai come in quell’anno i film rappresentarono un ponte verso altri spazi/mondo in cui perdere lo sguardo e sondare tutta una gamma di emozioni necessarie a sopravvivere alla giornata. Per me vedere gli Amberson fu un piccolo miracolo, che dura ancora oggi. È il mio Welles preferito. Quello che più di tutti sembra raccontare la bellezza del cinema come contenitore di fragili e immateriali possibilità.

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Ho sempre pensato che in questo suo secondo film Welles parlasse di se stesso più che altrove. E in realtà deve averlo pensato lo stesso Orson se è vera la storia che  l’attore e regista sospettava che Booth Tarkington, l’autore del libro da cui il film è tratto, si fosse ispirato a lui nel delineare il personaggio di George. Del resto nel film c’è un oscuro fatalismo molto in linea con l’opera e la vita del regista di Quarto potere. L’orgoglio degli Amberson è un film sul fallimento, sulla presunzione incosciente che viene punita dal destino, sul passaggio di consegne tra un’epoca e l’altra, tra una stagione della vita e l’altra. È un film su Welles, inutile negarlo. Il viziato George Amberson è a tutti gli effetti l’alter ego dell’autore, che vede sfaldarsi sotto gli occhi l’impero della famiglia. Il tempo scorre inesorabile nel film cancellando presto la nostalgia giovanilistica della prima parte e trasformando l’intero set di un mondo antico con architetture via via più moderne. La vita e la storia lasciano sempre un conto da pagare e l’età dell’oro ha una data di scadenza inesorabile, un punto di non ritorno oltre il quale l’ambizione e la cieca ingenuità dei giovani lasciano il campo al sacrificio, alle ineluttabili responsabilità della vita adulta. Sono convinto che L’orgoglio degli Amberson parli di quanto sia doloroso e ingiusto dover diventare uomini. Io al tempo in cui vidi il film lo amai per questo. E in parte ancora oggi.

Mentre girava The Magnificent Ambersons Welles era ancora giovanissimo (26 anni) ma è come se presagisse già la fine della sua fortuna e avesse deciso di raccontarla, in un lucidissimo processo simbiotico in cui la mania di grandezza si sposa con l’autodistruzione. Questo è un elemento interessante. Welles pre-vede il (suo) fallimento e lo mette in scena. Lo frantuma e moltiplica nei punti di fuga di ogni singola immagine. È il costosissimo scherzo di un ragazzino. Concepito quasi per far arrabbiare i più grandi e farsi esiliare off Hollywood.

Orson Welles sul set de L'orgoglio degli Amberson

Orson Welles sul set de L’orgoglio degli Amberson

Nel libro Io Orson Welles c’è un ricordo molto intenso su questo film. Una sera in una suite d’albergo di Los Angeles con un gruppo di amici Welles scopre che in tv danno L’orgoglio degli Amberson. Fa di tutto per cambiare canale ma Peter Bogdanovich e gli altri presenti  lo convincono a vedere tutti insieme il suo capolavoro maledetto. Racconta Bogdanovich: “Il film andava avanti e Orson annunciava ad alta voce la perdita di alcune scene mutilate. Parecchi minuti più tardi, si alzò in piedi e dandoci le spalle andò alla finestra dove cominciò a giocherellare con la veneziana. Noi ci guardammo senza parlare. A nessuno era sfuggito che aveva le lacrime agli occhi. (…) Circa un anno dopo chiesi a Orson di quella serata. Gli dissi che immaginavo quanto fosse stato penoso per lui vedere il film massacrato così. – No – disse lui – non era quello, niente affatto. Quello mi fa solo arrabbiare. Non capisci? E’ perché quello è il passato, perchè è finito…”

Il tempo è passato e non ritorna. Quando ripenso ai miei film preferiti il primo desiderio non è mai quello di rivederli davvero, ma di tornare indietro alla prima volta in cui li ho visti. Riscoprire la sensazione e lo stupore del primo contatto visivo, senza troppi filtri razionali. È forse un desiderio impossibile da realizzare e questo probabilmente significa che i film belli non andrebbero mai recuperati. Spesso proviamo a rivivere il tempo perduto anche attraverso i film che ci hanno cambiato la vita, ma finisce che ci rendiamo conto che questi ultimi sono immortali. Noi non lo siamo. E nemmeno Welles lo era. Inutile prendersela. Oltre al cinema non si può avere tutto.

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