"Wayne Wang, il cinema asincrono.

Wang narra la fine (la sparizione/eclissi del corpo morente della visione), per poi trascinarla nei luoghi in cui si è consumata la vita. La eternizza in racconto, per catturarla meglio come frammento estatico di esistenza scaduta.

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Mentre il cinema di Wang ci scorre davanti veloce/lento/mutante, scriviamo col fermo immagine (possibile) più bello degli ultimi dieci anni. Puntinismo raggiante, doppi peripli sulle circonferenze acquose di una superficie piana. Jeremy Irons e Gong Li, lungo le vie affollate di una Honk Kong alla fine del mondo, labirinto rumoroso di sguardi che si incrociano per non toccarsi mai più. Ma non solo. Una telecamera non basta, la ritrosia del reale a svelare le sue carte nascoste ci predispone ad un'urgenza nel/vedere: ecco allora il piccolo schermo riflettente di Irons, sulle corde misteriose della visione già sta scorrendo il film della vita, l'aggiramento nervoso della traiettoria esistenziale che sa di essere morte. Chinese Box arriva a palesarsi nella rincorsa di un corpo morto, quando è già troppo tardi. Il cinema è questo. Fotogramma che rallenta la vita, depositario di presenti infiniti che esorcizzano lo spazio di una resurrezione consumata masticando oscenamente il ricordo. Cos'è allora il cinema di Wayne Wang se non contemplazione di un ricordo ancora da farsi, da prodursi? Si tratta della possibilità (giocata come partita persa in partenza) di aggiungere movimento e azione riflettente ad una storia già finita. Wang mette in moto lo sguardo quando la catastrofe è già avvenuta. Ne filma i fantasmi, ne sostanzializza i contorni, ma soprattutto ne saggia la possibilità di ritrasformarsi in densità materica da raccontare. Non è un caso che si parli di Chinese Box. Alla sua uscita passò quasi inosservato, e lo crediamo bene. Il cinema lo si vede spesso come fucina instancabile di eventi, dilazionati/frammentati/diluiti a piacimento. Le scelte sembrerebbero più o meno queste. Wayne Wang invece non si fa problemi di questo tipo, e racconta il disfacimenti progressivo del film che sarebbe potuto essere, e che non è. O meglio, manda subito a morte la possibile attualità del raccontare, intrecciando l'indissolubile legame tra fine e inizio del processo narrativo, invertendo però la rotta. Si narra la fine (la sparizione/eclissi del corpo morente della visione), per poi trascinarla nei luoghi in cui si è consumata la vita. La si eternizza in racconto, per catturarla meglio come frammento estatico di esistenza scaduta.

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Se l'Irons di Chinese Box ne è il paradigma, la Lopez di un Amore a cinque stelle il radicale svolgimento, la necessaria appendice. Ma andiamo con ordine e diamo una rapida occhiata alla vita di Wang, questo misterioso cacciatore di sguardi in bilico tra le estremità del cinema. Wang nasce a Honk Kong il 12 gennaio del 1949. Il padre era un fan sfegatato di John Wayne, tanto da chiamare appunto il figlio Wayne. Come inizio, niente male. A diciotto anni il giovane Wayne si trasferisce negli Stati Uniti per studiare cinema, dopo essersi diplomato alla Wah Yan Jesuith High School. Gli studi di cinema vanno bene e Wayne nel 1972 presenta per il diploma A Man, a Woman, A Killer, girato assieme all'amico Richard Schmidt. Il lavoro di Wayne piace, ma al giovane non arriva nessuna offerta di lavoro. Decide così di tornare ad Honk Kong dove inizia a lavorare per l'emittente televisiva R.T.H. L'esperienza di lavoro si rivela positiva, e Wayne ha la possibilità di assistere da vicino al processo ideativo (nel senso di creazione di idee da riportare poi su una sceneggiatura) e a quello produttivo. Sarà proprio questa infatti la palestra da cui attingerà di più nell'attività registica subito successiva, ma anche in quella produttiva. Produsse infatti ben presto per la R.T.H alcuni episodi della serie Below The Lion Rock, prima di tornare nuovamente in America per fare del volontariato. Ed è in quegli anni (parliamo dei primi anni '80) che ebbe la possibilità di esordire al cinema con Chan is missing (1982). Il suo è uno stile ancora incerto, si impone sulla distanza a fatica (memore soprattutto del glorioso cinema di genere che si faceva ad Honk Kong negli anni '70, quello di Zhang Che per intenderci), ma già pone le basi di una poetica autoriale che non tarderà a venire fuori con Dim Sum:a little bit of heart (1984), presentato tra l'altro al Festival di Cannes. Da questo momento in poi (complice la prestigiosa vetrina internazionale), Wang alternerà progetti a bassissimo costo con altri finanziati da grosse case distributrici, all'insegna insomma di un'alternanza giocosa tra autonomia, indipendenza e sottomissione (sia pur sempre parziale) ai diktat delle Major.

Ma, lo abbiamo già detto, il suo è un progetto estetico che non conosce slittamenti o variazioni. A partire dal suo primo film visibile anche in Italia (Slamdance, 1987), Wang ha iniziato a mettere in crisi una certa idea di cinema (quella legata alla riproduzione in tempo reale di un certo evento rappresentativo): tempo reale all'interno della finzione non sarà mai dato, e con la negazione di esso non si può fare ancora del cinema uno specchio riflettente, ma semmai retrovisore (nel senso di guardarsi indietro, nel tentativo di raggiungere la definizione di un'immagine persa nelle spigolosità oculari del tempo). Ecco allora Mangia una tazza di tea, le sue intermittenze nervose, l'esibizione dello iato culturale tra Cina e America dato in pasto alla rappresentazione nostalgica/metaforica della perdita di un corpo (in questo senso interpretabile come perdita della potenza sessuale da parte del protagonista che, dalla Cina, si trasferisce negli Stati Uniti) e il mascheramento nervoso (sotto forma di luci acquatiche che producono un decor formale splendido) di un cinema dello sradicamento, della spersonalizzazione, e ancor di più forse della stasi antinaturalistica tra una falda e l'altra della narrazione, quasi a voler catturare in un solo gesto le sospensioni indicibili che lambiscono le nostre esistenze. E' come se in quest'opera (e soprattutto con quella successiva Il circolo della fortuna e della felicità), Wang avesse composto una sorta di cronistoria barcollante ed effimera di un cinema delle origini, una sorta di prefigurazione mamouliana di un sete perso nei rivoli della storia di un luogo, dei suoi abitanti, delle sue morti. Si tratta sempre del progetto esposto inizialmente: ingannare il tempo, (simile in questo alla linea di pensiero di Hsiao Hsien), narratizzandolo. Non a caso la costruzione del set presente nel Circolo della fortuna e della felicità corrisponde perfettamente ad un progetto quasi chiuso in sé, assiso in una perfezione estetica quasi sternberghiana, mentre il passato rappresenta più propriamente l'insieme degli elementi sottratti alla stessa vicenda, relegato in un dominio oscuro in cui innescare uno sguardo per forza di cose parziale e labile. Wang rimanda la decifrazione del presente e lo sospende nel vagare rapsodico e sicuro della parola evocatrice (è tramite l'oralità agita dalla protagonista che nel Circolo ci è dato assistere alle altre vicende/ritorni). E' questa a scandire la cerimonia del ritorno, questa a sancire la lenta epifania di un ricordo graffiato dalla temporalità indefinita del presente. Quando poi Harvey Keitel e William Hurt in Smoke (scritto da Wang insieme a Paul Auster) esaminano delle vecchie foto in cui compare anche la moglie morta del protagonista, il processo emozionale scaturito dai riflessi chiaroscurati dell'immagine provoca un blackout del racconto, uno scacco non rimarginabile tra la parola e la visione. Il percorso seguito fino a quel momento (interni della tabaccheria, appartamenti vuoti) si rivela così insufficiente, del tutto inadatto a restituire se non in parte l'aderenza piena tra il corpo e la realtà: esiste un'immagine del presente (quella sfumata da traiettorie di fumo che si librano leggere nell'aria) e ne esiste una del passato. E' questa che Wang sublima anche nella sequenza finale (il sublime racconto di Auggie incastonato ad arte come fossile orale nella memoria febbrile della visione), quasi a voler tracciare i contorni di una rinascita (il corpo di oggi in quello di ieri e viceversa). Si tratta della stessa linea di pensiero che il regista riprenderà nello sbilanciatissimo/sperimentale Blue In The Face dove la mano di Paul Auster sovrasta la sua: stavolta però ogni gioco con il paradosso della messinscena è ritmato dalle convulsioni verbali del presente, si improvvisa tra Jarmush e Cassavetes e il cinema diventa artificio libero e spontaneo col quale dire ancora la parola, il gesto, l'improvvisazione. Il corpo è sempre al centro della prospettiva e non potrebbe essere altrimenti, ma ci sembra che Wang, a differenza delle altre opere, punti apertamente sulla proliferazione indiscriminata di occhi, di sguardi. Di punti di vista. E' la zona liminare che ci divide dal surplace millenaristico di Chinese Box (1997) in cui si assiste all'irradiazione pulviscolare dell'immagine sull'immagine (abbiamo già citato la telecamerina del protagonista, il suo desiderio di leggere sul corpo della persona qualunque il trapasso graduale verso il futuro del corpo, dell'immagine, della civiltà), ma non basta. La classicità futuristica di Wang tocca lo zenith dell'intensità proprio nel filmare la trasparenza del bisogno di vedere/vivere ancora: esemplare in questo senso la sequenza in cui Irons osserva Maggie Cheung attraverso la vetrata di un bar, cercando di carpirne il senso dell'agire, il mistero dell'essere, ma si tratta sempre e comunque di un falso movimento.

Come ci insegna lo Spielberg di Minority Report, più occhi appaiono in campo, meno si riesce a vedere. I corpo in Wang non riescono a toccarsi, ad unirsi (sublime a questo proposito la storia d'amore mancata tra Gong Li e Irons, ma anche il rapporto sempre rimandato tra la Portman e la Sarandon de La mia adorabile nemica), ma soltanto a ricordarsi dell'impasse in cui si sono stretti: si può ancora produrre cinema e sguardo, ma lo si può fare soltanto partendo dall'asincrono fisico/temporale della distanza. Lo sa bene il protagonista di The center of the world, impegnato ad inventarsi una storia d'amore impossibile con una spogliarellista che, almeno inizialmente, impronta il suo rapporto con l'uomo all'insegna di precise regole, destinate poi a sfumare nell'indeterminazione coatta del gioco tra sessi. Wang gira in digitale, fa lievitare come d'incanto mille zone d'ombra, e ci occlude lentamente la vista, quasi a voler tracciare il disegno volutamente imperfetto e irregolare di un rapporto tra falde di vita segnate da volute visive pesanti, da vere e proprie barriere che limitano la libertà del corpo (il protagonista inizialmente non può che osservare le geometrie del corpo della donna, senza poterla toccare), imprigionandolo in zone in cui lo si possa controllare meglio. Qui Wang non è meno epocale che in Chinese box, il suo è un filmare che organizza lo spazio di un possibile rapporto (tra sessi, tra identità, tra storie) secondo modalità d'approccio in cui coesistono proprio le densità indecedibili dell'esistenza, raccontata da uno sguardo vigile (potrebbe trattarsi di quello di un corpo sulla scena, ma anche di quello proveniente magari da qualche fuoricampo) che stavolta azzera i trascorsi individuali, per bruciarli lentamente sul fuoco vivo di un assoluto presente. Salvo poi rendersi conto nuovamente che si può dare cinema dell'oggi, soltanto se declinato su linee di demarcazione da cercare nel passato (da questo punto di vista The center of the world non fa altro che ri-narrare l'evento rappresentativo di Chinese box, sotto forma però stavolta di una flagranza epidermica/temporale piena, almeno apparentemente). Ecco allora il gioco di Wang con le identità di suoi attori (anche la Gong Li di Chinese Box proveniva da un passato di accompagnatrice) e soprattutto con i ricami ellittici che ci guidano dal passato al presente, come appunto in Un amore a cinque stelle in cui assistiamo al girotondo frenetico di movimenti assolutamente liberi in cui si gioca apertamente con le doppie identità dei personaggi (la Lopez che cambia automaticamente di ruolo per rinascere di volta in volta in panni differenti), fino alla rimessa in campo di segni che rielaborano di volta in volta l'eredità della commedia classica americana. Ma non c'è distinzione temporale tra cinema del passato e cinema attuale che tenga: Wang rimescola i corpi del suo cinema in un frullato impazzito di occasioni, di scelte, di destini, li dà letteralmente vita, per poi lambire la superficie automatica del loro spazio (luogo sempiterno di scambi e di equivoci come insegna l'albergo dell'opera) all'insegna di un continuo scambio di sguardi, di occhi, di ricordi. Esattamente come il frame infuocato di Chinese Box, da cui siamo partiti. L'occhio della vita, nel ricordo della morte.

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