We Live in Time, di John Crowley

La malattia è quasi l’interferenza di una rom com sulla prova più grande di una coppia. Ma resta ottima la prova di Andrew Garfield e Florence Pugh. RoFF19. Grand Public

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Una cucina al lavoro, come in The Bear. Il ritmo accelerato, la colonna sonora incalzante. Ai fornelli c’è Almut (Florence Pugh), giovane chef fusion in ascesa sulla scena inglese. Ha una figlia, un fidanzato, Tobias (Andrew Garfield) che ama, ma ha anche una grave malattia con cui confrontarsi. E proprio quel male irrompe improvvisamente nella scena e turba l’equilibrio della cucina e del film stesso.

Il tumore si sta facendo più aggressivo, è al terzo stadio e la donna ha paura del futuro, divisa tra la necessità della cura ed il desiderio di vivere ciò che le resta godendosi la famiglia, provando a vincere, tra l’altro, quella gara di cucina che Almut considera una sorta di lascito, qualcosa che potrebbe aiutarla a spingere la paura della malattia un po’ più in là o anche solo a non pensarci.

E We Live in Time sembra volerla accontentare, non concentrandosi troppo sul male ma ricostruendo la storia di Almut e del suo compagno Tobias per tappe non lineari: il loro primo incontro, la nascita della figlia, la scoperta della malattia, i preparativi per il matrimonio. Il film di John Crowley pare soprattutto un divertito esperimento di scrittura, che pare voler rifare il classico Love Story retto da due dei migliori attori della nuova generazione ma soprattutto conscio di decenni di racconti della malattia al cinema, forse esausto dell’artificiosità di quel linguaggio, di certi percorsi obbligati, di certi cliché di quel cinema.

L’esorcismo di quell’immaginario passa da un posizionamento della malattia nell’economia del racconto sempre di quinta, evocata soprattutto per metonimia, attraverso gli spazi in cui se ne fa esperienza (i sedili della zona della chemioterapia in ospedale, gli studi asettici degli oncologi), letteralmente un’interferenza in un film che è soprattutto una rom com con al centro la costruzione (e la messa alla prova) dell’amore tra Almut e Tobias, retta dalla straordinaria complicità tra Andrew Garfield e Florence Pugh, giocosamente divertita ad assecondare i cliché del genere e pronta ad usare il vissuto della coppia per giocare con le nostre attese, trovando, ad esempio, strane connessioni (o opposizioni) tra due cene al ristorante dei due protagonisti che il racconto appaia e che in realtà sono avvenute ad anni di distanza.

We Live In Time

Quando il film è davvero costretto a parlare di malattia, John Crowley e Nick Payne (autore dello script) provano da soli a creare una nuova sintassi, fondata, soprattutto, nello spazio emotivo del confronto col male, retta da domande sul senso della lotta, che tentano di trovare una ragione in certi apparenti egoismi del malato, riflettono sulle varie forme di resistenza che entrano in campo quando, da lontano, cominciano a profilarsi gli spettri della morte.

We Live in Time non perde mai davvero un colpo delle sue argomentazioni, coerente fino all’ultimo con i desideri della sua protagonista, ma forse al film di John Crowley manca un discorso davvero rinnovatore che interessi anche il corpo, il dolore, la perdita e che magari liberi le riflessioni su temi del genere da certa fastidiosa retorica o anche solo dell’approccio a volte morboso con cui vengono raccontati al cinema. Il film ne sfiora a tratti certi presupposti ma non sembra voler costruire su di essi argomentazioni davvero di rottura. La malattia rimane oggetto di conversazione, mai vero sconquasso emotivo, dettaglio che costringe i personaggi a venire a patti con loro stessi, salvo nei rari momenti in cui decide “in sicurezza” di esserlo, parentesi che però hanno il retrogusto di (belle) scene madri pensate per permettere a Garfield e Plugh di dare il meglio di loro.

Ed è un po’ come se la presunta rivoluzione annunciata da Crowley si fermasse ai blocchi di partenza. È un po’ come se, a forza di spostare ogni discorso sulla malattia un po’ più in là, il male fosse finito eccessivamente fuori campo, centro di un esperimento di scrittura appassionato, potenzialmente affascinante, ma che rischia di essere un po’ fine a sé stesso, che a suo modo racconta apertamente la sua contemporaneità, il suo essere legato ad un presente che pare voler rifuggire ogni impatto col trauma e in cui di morte pare davvero difficile parlare.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)
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