What’s Love Got to Do With It?, di Shekhar Kapur

Emma Thompson e Lily James sono le protagoniste di una commedia sentimentale ironica ed intelligente. Per riflettere con il sorriso sull’amore e la conseguenza delle sue scelte. Grand Public

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È meglio un matrimonio combinato o uno d’amore? Sembra chiedere questo What’s Love Got to Do With It?, ed ovviamente si tratta di una domanda provocatoria, per riflettere sulla felicità delle relazioni, dell’importanza della stabilità nella coppia, sui tradimenti e le delusioni. Who Needs a Heart When a Heart Can Be Broken… cantava Tina Turner nel famoso pezzo clonato nel titolo, e nel mondo delle relazioni fluide del presente è una frase di lampante attualità. Per affrontare un argomento del genere Shekhar Kapur, che torna a dirigere un film a 15 anni di distanza da Elizabeth: the Golden Age, sceglie l’ironia e confeziona una commedia sentimentale leggera e spassosa, addirittura esilarante, trascinata dalla straordinaria performance di Emma Thompson nel ruolo di Cath. Lei vive a Londra ed ha una figlia, Zoe, interpretata da Lily James, stavolta nei panni di una documentarista dopo l’exploit di consensi nella parte di Pamela Anderson, con una vita sentimentale abbastanza confusa.

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Zoe nel suo nuovo progetto di lavoro, si occupa di matrimoni assistiti, update lessicale per descrivere una pratica diffusa soprattutto nei paesi musulmani. L’idea nasce quando il suo storico amico di infanzia e vicino di casa Kazim, di origine pakistana, le confida l’intenzione di sposarsi, e di accettare l’aiuto della sua famiglia per trovare la ragazza adatta. La ricerca di una pretendente diventa una divertente variazione tinderiana collettiva, conclusa con la scelta di una ragazza della madrepatria conosciuta tramite FaceTime. La storia a quel punto si sposterà di latitudine, verso il Pakistan.

Dopo l’inizio di marcato umorismo british, si arricchirà di atmosfere bollywoodiane, con lo schermo riempito di colori sgargianti, di canti e balli cerimoniali. L’accostamento di stili diversi, insieme al ricorso ad una parte metacinematografica, permette al film di mantenere un ritmo ottimale, e soprattutto di avanzare un confronto di cultura, tradizione, e costumi differenti. A riflettere sul razzismo, sulla rappresentazione. A considerare come tra le generazioni questi concetti vengano continuamente rielaborati, assumano nuove forme, che non nascono dalla semplice attribuzione di un aggettivo come sorpassato antiquato e medievale. Il regista, seppure in forma comica, scende fino alla radice del problema e dimostra la tesi piuttosto nei fatti, nelle conseguenze dolorose di una decisione sbagliata. Ed arriva al cuore, consapevole di dover ascoltare la sua voce prima di ogni altra, perché quando è triste il cuore non c’è rimedio o soluzione di comodo, il rischio fa parte del gioco. E non bastano mille cerotti per curare le ferite invisibili agli occhi, e non esiste una gabbia per trattenere le fiamme.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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