What’s My Name: Muhammad Ali, di Antoine Fuqua

Fuqua ripercorre la traiettoria sovversiva nell’immaginario collettivo di Muhammad Ali, che con l’uso accorto della sua immagine ha realizzato l’impossibile tanto sul ring quanto nel sociale.

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What’s my name. Nessun punto interrogativo, nessuna domanda. Anche solamente porla sarebbe stato l’equivalente di ammettere la possibilità di una risposta diversa da Muhammad Ali. Questo è il nome che rompe le catene che legano il suo possessore a un passato di schiavitù, a quel Cassius Marcellus Clay, schiavista del Kentucky che possedeva i suoi avi, in onore del quale era stato nominato. È la prima picconata, il primo atto di sabotaggio costituivo di un’immagine che Ali vuole costruirsi su misura, rifiutando il posto fin troppo comodo che gli è stato assegnato.

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Non è un caso, allora, che Antoine Fuqua decida di far cominciare What’s My Name: Muhammad Ali proprio con un giovane Ali che si interroga sul proprio nome. Il cineasta di Pittsburgh, cresciuto a “spari e videoclip” e maturato sotto la stella del furore di un cinema di genere dinamitardo, sceglie coerentemente che sia Ali, sabotatore come lui, a parlare di sé stesso. È la stessa icona del protagonista che si racconta attraverso l’onnipresente materiale d’archivio, permeato di musica black, da Sam Cooke e James Brown fino ai Kool & the Gang, di questo documentario in due parti prodotto da LeBron James e visibile sul sito di HBO.

Se la boxe però non è tutto per Ali, come lo si sente dichiarare ai cronisti dopo la vittoria del primo titolo mondiale, nemmeno la sua icona si esaurisce, per Fuqua, nello sport. Non mancano le riprese dei match fondamentali della sua carriera, ma sono decisamente meno importanti delle conferenze stampa pre-match in cui dice di essere l’essere più bello ad aver camminato sulla Terra. What’s My Name non ripercorre la vita di Muhammad Ali, ne ricostruisce la genesi iconica, dalla prima foto fino alla sua apparizione da tedoforo alle olimpiadi di Atlanta del 1996. Trash talk fuori e dentro al ring, uscite pubbliche con Malcolm X e Martin Luther King, interviste esilaranti sono tessere di un mosaico composto in modo ponderato e funzionale a portare avanti le sue battaglie politiche emancipatorie.

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In un mondo in cui una persona afroamericana deve ancora girare con un libro verde per sapere dove possa consumare un pasto in pubblico, l’immagine di Ali è l’impensabile che si concretizza. Pensarsi liberi di essere ciò che si vuole è il primo e necessario passo per esserlo. What’s My Name è chirurgico nel descrivere quanto sia stato incisivo e fondamentale nel farsi portatore di quest’idea, nel trasformarsi in una crepa così profonda nell’orizzonte delle possibilità da creare uno spazio vuoto fondamentale per il cambiamento. Una mina che esplode in continuazione in un sistema che domina e misconosce apertamente.

È nella fase discendente di questa sovversiva traiettoria nell’immaginario, nell’ultima parte di carriera e dopo il ritiro, che la mano ferma di Fuqua fa emergere un forte senso del tragico che contamina anche ciò che si è già visto. Come se, una volta trascesa l’idea di Muhammad Ali, il suo corpo venisse piano piano lasciato indietro, segno dal quale scivola via il suo significato. Avvicinandosi al finale What’s My Name assume pienamente la forma di elegia di un martire dell’immagine, ricordandoci soprattutto che anche un uomo che ha voluto farsi statua può sanguinare.

 

Titolo originale: id.
Regia: Antoine Fuqua
Distribuzione: HBO
Durata: 165′
Origine: USA, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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