"White Oleander – Oleandro bianco", di Peter Kosminsky

La giustapposizione di modelli e ambienti diversi crea un collage superficiale la cui patina non copre, anzi rende correttamente la visibilità di una ripulsa possibile. Anche i generi impegnati (dramma familiare, thriller passionale, film carcerario) sono ben lungi dal farsi linee guida di un affresco dolente alla Altman o alla Anderson

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Si può programmare la programmaticità? A vedere White Oleander si potrebbe rispondere affermativamente. Le tante strategie giocate, dalla scelta del libro bestseller al cast all-women fino alle tematiche adolescenziali, ci guidano in tal senso. Ma forse proprio qui sta il punto. Se una certa percezione di scarsa autenticità non sia estremamente intrinseca all'anima filmica cercata in origine, a quel "veleno d'oleandro" che assoggetta l'uomo dalla nascita frenandone l'incontro con l'esperienza. La giustapposizione di modelli e ambienti diversi crea così un collage superficiale la cui patina non copre, anzi rende correttamente la visibilità di una ripulsa possibile. Anche i generi impegnati (dramma familiare, thriller passionale, film carcerario, romanzo di formazione) sono ben lungi dal farsi linee guida di un affresco dolente alla Altman o alla Anderson mentre restano doverose Polaroid già scattate da altri o pesanti mattoni di una parete edificata con l'unico scopo di essere abbattuta il meno tardi possibile. E' il destino di un percorso venefico come quello di Astrid (la pressochè esordiente Alison Lohman, efficace post-Lolita ora nel Matchstick men di Ridley Scott) che a 15 anni vede la madre arrestata per l'omicidio dell'amante infedele con l'estratto della pianta in questione e inizia un calvario di sopravvivenza tra varie famiglie affidatarie. Fiorellino sradicato dall'humus latteo dove la figura di riferimento, artista carismatica e ostinata, riesce facilmente a tenerne in ostaggio idee, sentimenti, scelte rispetto ad un mondo esterno ritenuto non necessario (ma il successo della mostra nel mondo/prigione dimostrerà il contrario). La via che dalla mimesi porta all'emancipazione sarà inevitabilmente dolorosa. Kosminsky la cerca con la camera a mano tra gli spazi domestici e nell'interazione prevedibile coi personaggi che sono, assieme ai ritratti schizzati dalla protagonista, lo specchio delle sue nevrosi. L'ex ballerina alcolizzata ora bigotta, l'attrice fragile e disperata, la russa concreta e vitale, il ragazzo paziente e attento. Tappe rumorose di un percorso da non seguire linearmente. Anche qui la soluzione sarà nella s/composizione delle esperienze per poter meglio affrontare il braccio di ferro con una madre carceriera. La figlia vista come opera d'arte diventerà così artista, ricordando la lezione per  poi tradirla e andare avanti. Come una valigia, conservare o partire. Insomma, quasi un vademecum hollywoodiano per giovani artisti in procinto di uccidere Madre Cultura secernendo quel glucoside mortale che ci tiene sotto scacco e da cui bisogna maledettamente liberarsi, forse… 


 


Titolo originale: White Oleander
Regia: Peter Kosminsky
Produttori: John Wells, Hunt Lowry
Sceneggiatura: Mary Agnes Donoghue, tratto dal romanzo di Janet Fitch
Fotografia: Elliot Davis
Montaggio: Chris Risdale
Musiche: Thomas Newman
Scenografie: Donald Graham Burt
Costumi: Susie DeSanto
Interpreti: Alison Lohman (Astrid Magnusson), Robin Wright Penn (Starr), Michelle Pfeiffer (Ingrid Magnusson), Renée Zellweger (Claire Richards), Billy Connolly (Barry), Svetlana Efremova (Rena Grushenka), Patrick Fugit (Paul Trout), Cole Hauser (Ray), Noah Wile (Mark Richards)
Produzione: John Wells, Hunt Lowry
Distribuzione: Mediafilm
Durata: 110'
Origine: Usa, 2002

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