Why Is Yellow at the Middle of the Rainbow?, di Kidlat Thaimik

L’espropriazione del gusto del racconto, della sua anima, della storia e delle immagini al centro della ricerca del cinema post-coloniale.

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Una vera occasione quella offerta dal Festival di Pesaro per riflettere su un aspetto, sicuramente evidente, ma volutamente taciuto, che appartiene di diritto alla storia del cinema. La sezione Lezioni di storia, curata da Federico Rossin, ormai punto di riferimento della manifestazione pesarese, ci invita, sebbene con un breve programma – ma è stata anche un’occasione perduta per ciò che ha reso impossibile il rispetto dell’originaria proposta che prevedeva altri due appuntamenti – a riflettere su una possibile scrittura della storia del cinema che tenga conto dello sguardo di quei popoli che hanno subito un dominio coloniale e di quegli autori che, interpretando questa condizione, abbiano orientato la realizzazione dei propri film in una direzione utile a riappropriarsi di una narrazione che la colonizzazione ha ingiustamente sottratto. Il tema non è infatti quello

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dello sguardo consolatorio che comprenda le ragioni dei colonizzati, ma il racconto di una occupazione che è primariamente culturale e pertanto puntualmente diretta a sradicare ogni forma di pensiero e azione che metta in pericolo i nuovi equilibri politici. Su queste fondamenta le Lezioni di storia del cinema post-coloniale, come scrive lo stesso curatore nel Catalogo nell’introduzione alla sezione, servono a ripensare alla storia di questa disciplina: Nel termine post-coloniale il prefisso “post” non si riferisce a un “dopo” ma ad un “oltre”: il cinema post-coloniale ci aiuta a pensare la complessità delle nazioni ex colonizzate senza adottare il punto di vista di noi europei colonizzatori; questi film ci servono ad uscire dal paradigma coloniale e a liberarci da una visione omogenea ed eurocentrica della storia del mondo.

È su queste solide premesse teoriche che si è sviluppato il programma della sezione. A partire dal cinema femminista maghrebino con La Zerda ou les chants de l’oubli (1982) della anche scrittrice algerina Assia Djebar, un film che decostruisce lo sguardo della comunicazione francese dell’epoca della colonizzazione rivelandone il voyeurismo predatorio (Catalogo cit.), e Fatma 75, del 1976, di Selma Baccar che in un processo tra fiction e non fiction racconta attraverso la vicenda della sua protagonista, una giovane studentessa universitaria tunisina, la difficile emancipazione femminile ai tempi del dominio francese. Nuestra voz de tierra, memoria y futuro di Marta Rodriguez e Jorge Silva (1974-1982), è un film in cui domina la narrazione propria ed esclusiva da parte degli indigeni della regione colombiana di Coconuco. Uno sguardo che si riappropria della propria natura, un racconto che ripercorre le tracce di una lotta per la terra in un film che ha avuto una lunga ed elaborata gestazione.

Infine l’originalissimo e giocoso e gioioso Why Is Yellow at the Middle of the Rainbow? di Kidlat Thaimik, anche questo film elaborato nel corso di dieci anni tra il 1984 e il 1994, composito poiché formato da più supporti in cui il digitale e la pellicola costituiscono le categorie principali, ma film anche sinistrato da un incendio che ne fece perdere una parte. Kidlat Thaimik è un regista filippino il cui nome significa Fulmine silenzioso, ma il cui vero nome è Eric Oteyza de Guia. Già studente di economia negli Stati Uniti, dopo avere preso coscienza del funzionamento, innanzi delle strutture economiche capitalistiche e dell’influenza che questi sistemi produttivi dominanti hanno avuto sulle economie locali dopo la decolonizzazione, dirige le sue energie creative sul cinema non solo come regista ma in molti altri ruoli compreso quello di attore.
Why Is Yellow at the Middle of the Rainbow? appare come un compendio, un ricco e quasi dissennato zibaldone in cui attraverso il gioco infantile e il bricolage povero della produzione, Kidlath Thaimik con una ironia tagliente, ma venata dal suo bonario esprimersi, attraversa gli anni in cui si è costruito il mito del conquistatore, ma soprattutto il mito della cultura americana dominante, dal lavoro alla musica, dal cinema fordiano con i suoi spazi della Monument Valley a quelli produttivi. Una lunga carrellata di miti che il cinema familiare del regista filippino sembra volere scomporre e ricomporre e non a caso il titolo di questa ultima Lezione di storia è: “Bricolage” per un’estetica del terzo mondo. Quella dell’estetica è proprio quello di cui il film, dal lungo e interrogativo titolo, ci parla e ci racconta. Non servono grandi e ampollosi discorsi a Kidlath Thaimik per affrontare il tema di una pervasiva colonizzazione che assomiglia un po’ a quella che Wenders chiamava colonizzazione dell’anima, ma lì con accenti favorevoli laddove affrontava il tema del cinema come forma espressiva. Kidlath Thaimik stravolge questo sguardo e ancora una volta decostruisce, ma con gesti infantili, piazzando ad esempio, nel pieno della Monument Valley uno schermo televisivo sul busto di un nativo americano oppure utilizzando un palo di legno come microfono oppure, ancora, abborracciando il montaggio del suo film in uno scalcinato studio tutt’altro che ricco di tecnologia. La sua macchina da presa diventa impietosa, ma sempre su un registro divertente, ma acido, apparentemente affabile, ma anche implacabile. Quello dell’autore filippino è un cinema dell’accumulazione non solo temporale, ma anche culturale, è un cinema che nel flusso infinito di un tempo interminabile si arricchisce di un pensiero alternativo e naturalmente istintivo. È in quest’ottica che egli stesso sul finire del film dice al figlio che gli ha manifestato l’intenzione di studiare ingegneria, bene vai a studiare ingegneria, ma vai anche ad imparare qualcosa dal fabbro del paese perché ti potrà insegnare delle cose che all’Università non ti insegneranno mai.

Kadlith Thaimik e gli altri cineasti che abbiamo menzionato e i loro film e quelli che non abbiamo ancora visto e che con fatica hanno saputo e fortemente voluto raccontare la storia dei propri popoli non scritta dai vincitori, ci obbligano a guardare, ancora più marcatamente di come lo abbiamo finora fatto, al cinema in quel suo diverso atteggiarsi e come si fa con gli alimenti guardare l’etichetta per scoprire e comprendere con attenzione da dove proviene quella storia, chi l’ha scritta e chi l’ha girata e soprattutto cosa contiene. Diffidare pertanto da chi voglia, con la propria cultura, raccontare la storia d’altri, espropriandogli non solo il gusto del racconto, ma anche la sua anima e, visto che parliamo di cinema, anche le sue immagini.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
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