Winter in Sokcho, di Koya Kamura
Opera di rara eleganza e sensibilità sulla ricerca dell’identità che supera la dimensione del reale per concretizzarsi in alcuni meravigliosi inserti animati. In Concorso al Bergamo Film Meeting 43

Da cosa possiamo definire davvero una persona? Dalla lingua che parla o dal suo patrimonio culturale? C’entra forse con il suo aspetto fisico? Oppure ciò che siamo è determinato dallo sguardo che gli altri hanno su di noi?
Da questi interessanti interrogativi prende forma Winter in Sokcho, la notevole opera prima del regista franco-giapponese Koya Kamura, già presentato in concorso al 49esimo Toronto Film Festival ma anche al 72esimo Festival di San Sebastian nella sezione New Directors. Per Kamura, nato a Parigi da madre francese e padre giapponese, il tema della ricerca della propria identità è, per forza di cose, il motore che alimenta questo suo delicato lungometraggio d’esordio ambientato sulle coste coreane della città di Sokcho, a qualche chilometro dal confine con la Corea del Nord.
Qui è tornata a vivere da pochi mesi per mettere da parte qualche soldo Soo-Ha (Bella Kim), una giovane studentessa di letteratura. La ragazza ha trovato lavoro come cuoca e cameriera al Blue House, una vecchia e malmessa pensione per turisti. Nella monotona routine quotidiana della ragazza, prossima al matrimonio con il fidanzato Jun-Oh, ecco che irrompe Yan Kerrand (interpretato dall’ottimo Roschdy Zem), un noto illustratore francese in cerca di un alloggio senza pretese e di ispirazione per il suo nuovo lavoro. La provenienza e modi particolari dell’uomo risvegliano nella ragazza alcune domande sulla propria identità e sul padre, un marinaio francese che non ha mai potuto conoscere. È nel gelido inverno del villaggio coreano che i Yan e Soo-Ha instaurano un dialogo, fragile ma profondo, che non passa tanto dalla parola (i due comunicano in francese) quanto più da elementi palpabili e condivisi universalmente come il cibo e la pittura.
Kamura, ispirandosi al romanzo dell’autrice franco-coreana Elisa Shua Dusapin, sviluppa un’opera che imposta a sua volta un dialogo tra i diversi linguaggi dell’audiovisivo. Con grande perizia, il regista inserisce numerosi inserti animati che danno forma alle fantasie inespresse della protagonista, la cui curiosità nei confronti dell’illustratore cresce inquadratura dopo inquadratura.
Il disegno diventa un rapporto vivo e concreto con l’ambiente, le cose e le persone che ci circondano. La giovane Soo-Ha nasconde costantemente il proprio corpo, chiede alla madre e al fidanzato quale parte del viso dovrebbe modificare con la chirurgia plastica facciale (e qui si potrebbe aprire un dibattito infinito sul ruolo sempre più influente della chirurgia estetica in Corea del Sud). Tuttavia, spiando da una fessura l’artista all’opera, mentre trasforma la sua immaginazione in forme concrete, ecco che la ragazza riscopre il proprio corpo, trovando un’inedita armonia identitaria che supera la dimensione del reale per concretizzarsi nei meravigliosi disegni animati di Agnès Patron. E così, le forme dei corpi, le linee e le strutture del paesaggio si confondono, dando vita ad un ritratto in movimento di rara eleganza visiva e sensibilità emotiva.