Wittgenstein, di Derek Jarman

Uno dei pochi film che riesce a parlare di filosofia attraverso la forza delle immagini. Attraversato da una pungente ironia e da un’esplosione di colori che inondano l’occhio dello spettatore.

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Trattare della vita di un artista o di un personaggio storico per imbastire un discorso su sé stessi. Wittgenstein è uno dei pochi film che riesce a parlare di filosofia attraverso la forza delle immagini, intrappolando la velocità del pensiero in una struttura teatrale. I film biografici di Derek Jarman parlano soprattutto del conflitto dell’artista con l’arte e del forte contrasto tra le alte aspirazioni dello spirito e il senso di colpa per una pulsione istintuale difficile da catalogare. In Wittgenstein questo tormento interiore è risolto visivamente con una ambientazione minimalista (il modello è brechtiano con variazione policromatica queer) che emerge dal nero circostante in fasci di luce (Lars Von Trier ne verrà influenzato per il suo Dogville). A dispetto della scenografia vuota i colori inondano l’occhio dello spettatore: il verde, il rosso, il lilla, il giallo, il blu. Il colore di una cosa al cinema è meglio della cosa reale (Blue di Jarman del 1993 è il suo film testamento).

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Rispetto alle altre sue opere, una pungente ironia pervade la prima parte del film donando alla biografia del celebre filosofo viennese, un’aura di insolita leggerezza a dispetto della profondità dei pensieri. Il piccolo Wittgenstein (Clancy Chassay) regala perle di saggezza e si confronta con un verde marziano su un punto di vista fuori dalle conoscenze terrene (“il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”). Jarman inserisce gli episodi più importanti della vita del filosofo facendo coesistere in scena l’infanzia e la maturità, il passato e il presente, gli amici e gli amori. Il puzzle non ha una coerenza narrativa ma ogni pezzo aggiunge una immagine diversa che riflette la impossibilità di tradurre in parole la complessità della realtà. Il mentore Bertrand Russel (Michael Gough), l’autoesilio in Norvegia per scrivere il Tractatus Logico-Filosoficus (“la solitudine è beatitudine”), le sonate di Brahms, l’arruolamento da volontario per combattere nella Prima Guerra Mondiale (“la vicinanza alla morte sarà per me luce di vita, Dio fammi diventare un uomo”), il concerto di Ravel, la pubblicazione del Tractatus a Vienna, il fallimento dell’insegnamento ai bambini della provincia austriaca e la chiamata al Trinity College a Cambridge grazie all’amico Maynard (John Quentin), il desiderio omoerotico per il prestante Johnny (Kevin Collins) vissuto sotto il fascio di luce della proiezione cinematografica con i miti di Carmen Miranda e Betty Hutton, dei western e dei musicals. Tra tutti i personaggi spicca una proteiforme Tilda Swinton che tiene testa a Wittgenstein (Karl Johnson) nei panni della estroversa Ottoline Morrell.

Le lezioni di Wittgenstein sono tra le parti più riuscite del film perché Jarman filtra la densa sceneggiatura del critico letterario Terry Eagleton con delle soluzioni visive minimaliste ma perfettamente aderenti al senso della filosofia: Wittgenstein fa tabula rasa sul pensiero privato cartesiano per aprirsi alle necessità e limiti del linguaggio (“I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo”). Molto riuscita la scena della danza dei personaggi che interpretano sole terra e luna con palloni colorati, mostrando la relatività del movimento e dei giochi di logica (Béla Tarr riproporrà una versione più alcolica ne Le armonie di Werckmeister). Con il procedere della narrazione si inserisce in Wittgenstein il tarlo del dubbio sulla bontà delle proprie teorie inerenti il linguaggio e la logica, di pari passo con la crescita del desiderio sessuale. Come in Caravaggio (1986), l’irruzione della sensualità provoca un burn out nella mente dell’artista-genio (“è come se fossi stato bruciato da un vento gelido”) che non accettandosi finisce per costruirsi una gabbia dentro un’altra gabbia, come nella scena del pappagallo. Non è difficile scorgere l’Io di Jarman, già ammalato di AIDS, in questa rappresentazione di un talento che ha per maggiore ostacolo il proprio corpo mortale. La filosofia diventa una malattia della mente e gli insegnamenti di Wittgenstein il mezzo per propagare questa contagiosa infezione. L’anima è prigioniera del corpo e non ha possibilità di contatto con le altre anime proprio per la barriera fisica: Wittgenstein abbandona la partita in uno splendido finale che apre il sipario alla luce di una possibilità metafisica oltre i confini della logica e della filosofia.

La filosofia lascia tutto esattamente come è, il linguaggio dipende dal contesto culturale in cui ci formiamo, dalla vita pratica, dal pubblico e non dal privato. E di cio di cui non si può parlare è meglio tacere. Sul letto di morte di Wittegenstein viene riassunta la terribile contraddizione dentro la quale si è diabattuto per tanto tempo: da una parte il mondo del puro pensiero liscio e inflessibile come una lastra di ghiaccio immacolato ma su cui è facile scivolare, dall’altra la consapevolezza che sono le imperfezioni e le ruvidezza della terra a rendere speciali certi momenti. La soluzione dell’enigma sta tra terra e ghiaccio, una zona fuori dallo spazio e dal tempo in cui è proprio la morte a dare alla vita forma e significato.

 

Titolo originale: id.
Regia: Derek Jarman
Interpreti: Karl Johnson, Michael Gough, Tilda Swinton, Clancy Chassay, Jill Balcon, Sally Dexter, Gina Marsh, Vanya Del Borgo, Ben Scantlebury, Howard Sooley, David Radzinowicz, Jan Latham-Koenig, Nabil Shaban, John Quentin, Lynn Seymour
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 72′
Origine: UK, Giappone, 1993

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
3.33 (3 voti)
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