Wong Kar-wai e la Nouvelle Vague di Hong Kong

Non ci piace dare definizioni. Denominare, delimitare, inquadrare… Le etichette sono sbarre, recinti per il pensiero, ma se il cinema è anche storia del cinema, allora non ci sono dubbi: quello che Hong-Kong vive, da qualche anno, è una vera e propria rinascita, che fa pensare alla Nouvelle Vague, a un’ondata di rinnovamento tutta orientale. Non è solo attraverso la tecnica (arresti d’immagine, variazioni di velocità, falsi raccordi, découpage…) che, al pari dei cineasti francesi degli anni sessanta, molti registi di Hong-Kong negano le leggi del cinema narrativo tradizionale, ma anche attraverso un’attitudine, un desiderio profondo e necessario di creare opere personalissime e extra-ordinarie.
Una carrellata è una questione di moralità, diceva Jean-Luc Godard. Wong Kar-wai, assieme a John Woo, ma anche assieme a Tsui Hark, Wayne Wang e Ang Lee (anche se quest’ultimo è originario di Tawain) sono i rappresentanti di un nuovo modo di fare cinema, i creatori incontrastati di una nuova sintassi della visione, in grado di coniugare tradizione e innovazione, poesia e commercio, kung-fu e mafia, thriller e melodramma, velocità e lentezza.
In the mood for love di Wong Kar-wai è una messa in pellicola dell’andamento dell’amore. È il movimento serpentino dei sentimenti, è la forma della passione e dei corpi, è la spirale del fumo di una sigaretta che s’innalza verso la luce di una lampada. È un’esplorazione dolorosa nell’animo di un uomo e di una donna. È una riflessione tormentata sulla condizione umana, riflessione che si attorciglia nel seguire la curva di un fianco, il profilo di un seno, l’ombra cava di un ventre, la piega di una bocca. Maggie Cheung, vedette dello stars system di Hong-Kong, con i suoi abiti colorati è una donna-quadro, una donna-paesaggio, una natura sempre cangiante che cambia appena ti volti a guardarla nuovamente. La sensualità del suo corpo è palpabile come i tessuti che indossa. La macchina da presa la segue nei suoi movimenti, rallenta per scrutare i segni lasciati dai suoi passi e, dalla sua nuca appena celata, scivola lungo la sua schiena. Non c’è alcuna esibizione, non c’è ostentazione: il regista ci insegna a guardare con rispetto e ad arrossire con pudore, in silenzio, nell’asciuttezza, nell’essenzialità di una camera da letto. In confronto, il corpo denudato della Malèna di Tornatore, non esprime nessun erotismo, nessun piacere, nessun tormento e la dilapidazione in piazza di una Monica Bellucci/Giovanna D’Arco non fa che umiliare un corpo già massacrato da un ossessivo e compiaciuto voyeurismo.
In Wong Kar-wai il desiderio permea tutta la pellicola non attraverso il manifesto, il palese, la luce, ma attraverso le ombre e i colori, la musica e il silenzio.
Il desiderio è assenza e la lezione di Wong Kar-wai è uno schiaffo, uno schiaffo che risuona ancor più fortemente se si pensa a un altro desiderio, quello percepito e vissuto in Happy Togheter, laddove il contatto tra i corpi era di una violenza sconvolgente (basti ricordare la prima di scena, dove l’amplesso era una possessione quasi dolorosa). Come nel precedente lungometraggio, i due amanti si negano e si allontanano: l’amore, per Wong Kar-wai è anche perdita e nostalgia mentre i suoi personaggi vagano in direzione centrifuga, protesi verso un esilio inconsistente. E anche Wong Kar-wai guarda alla sua Honk-Kong da lontano, chiudendo la visione all’interno delle stanze a volte decorate altre volte spoglie, tra le trombe tristi delle scale, nel silenzio immobile dei corridoi. E l’ultimo sguardo penetra nel profondo, sino all’oscurità di un buco nel quale custodire un dubbio lacerante, un segreto inconfessabile: l’impossibilità di amarsi.

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