Yes, di Nadav Lapid

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Un film che trasuda rabbia e in cui Lapid cerca di dar un’espressione definitiva al suo rifiuto e orrore per la politica di Israele e la guerra a Gaza. CANNES78. Quinzaine des Cinéastes

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Y. e Jasmine, un precario musicista jazz e la sua compagna ballerina fanno fa la “bella vita”. Si divertono abbandonandosi agli eccessi, frequentano i giri che contano e le feste esclusive di Tel Aviv. E donano “arte, corpo, anima” a chi offre di più. Di fatto, sono due persone che si prostituiscono, in un modo e nell’altro. Fisicamente, professionalmente, moralmente. Ma tutto questo sembra essere vissuto in maniera “indolore”, senza alcun segno di rimorso, in piena incoscienza, con gioia e disponibilità infinita. Eppure di deposita sul fondo, in un grumo indistinto di frustrazione, rabbia, forse disgusto. Che traspare dalla frenesia dei gesti, dalla nevrotica, selvaggia energia dei movimenti, dalle esplosioni incontrollate. Come è evidente sin dalla sequenza iniziale di Yes, in quel party in cui i due sono scatenati, ballano all’impazzata da un angolo all’altro della villa e si avvinghiano ai corpi degli altri. Y., in particolare, è letteralmente fuori controllo, mima scene di fellatio, attraversa gli ambienti in un vortice di danza delirante, affonda la faccia nei cocktail, si butta in piscina. A un certo punto un generale di Tsahal, l’esercito israeliano, comincia a intonare una canzone patriottica, a cui Y. oppone, urlando sempre più a squarciagola, il ritmo del pezzo dance che sta passando in quel momento. I due arrivano a trovarsi faccia e faccia e innescano una vera e propria sfida a chi canta più forte. Finché Jasmine, preoccupata, dice al compagno “lascia vincere il generale”. Quello che poteva sembrare un atteggiamento di resistenza e di dissenso ritorna nell’ordine dell’acquiescenza. Perché “la sottomissione è felicità”, come dirà Y. al figlio di pochi mesi, dopo aver elencato tutte le cose belle del mondo. Ma davvero?

Ambientato dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 che ha dato il via alla feroce guerra di Israele contro Gaza, Yes è un film che trasuda rabbia, in cui Nadav Lapid cerca di dar un’espressione definitiva al suo rifiuto e alla sua opposizione per la politica di Israele e di Netanyahu, per la brutale devastazione di Gaza e lo sterminio di una popolazione inerme. Perché non gli basta più manifestare il dissenso, raccontare il disagio, il senso di colpa e di sradicamento, come in Synonymes o in Ahed’s Knee. Ora è il momento di urlare, di far esplodere come una bomba tutto il carico di sofferenza e orrore. Con la violenza di uno stile brutale. Fatto di movimenti di macchina impazziti, di inquadrature traballanti e sghembe, stacchi improvvisi, esplosivi come schiaffi, di un tappeto sonoro disturbante e aggressivo. E poi evidenze e sottolineature che definiscono con tratto pesante il quadro di un’umanità meschina, vigliacca, se non, peggio, mostruosa. E gli inserti di feroce, gratuita assurdità, come nella scena in cui Y. e Jasmine iniziano a litigare e a lanciarsi contro il figlio, un palese bambolotto che viene sbattuto contro i muri senza tanti complimenti.

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Certo, così facendo, Nadav Lapid si assume il rischio dello squilibrio. E si può anche ipotizzare che sia stato il furore del suo attacco a segnare la collocazione festivaliera del film. Ma è uno squilibrio che nasce, evidentemente, da una sacrosanta urgenza, politica e  interiore. E che, soprattutto, non rinuncia a metter sul campo la problematicità delle questioni. Perché Yes cerca di interrogarsi sulla responsabilità della gente comune. Non tanto i fanatici sostenitori della guerra e dello sterminio, quanto tutti quegli israeliani che fingono di non guardare e di non sapere. Esattamente come i protagonisti, che cercano di ignorare le notifiche delle breaking news provenienti da Gaza, annegando nella musica a palla quell’insostenibile contrappunto sonoro di distruzioni e urla. Per Lapid non c’è dubbio che l’inconsapevolezza sia ipocrisia e il silenzio una forma di connivenza. Soprattutto da parte degli “artisti”, di quelli che avrebbero la possibilità di far sentire la propria voce. E che, invece, nicchiano o addirittura si allineano. Come Y. che accetta di metter in musica il nuovo inno patriottico, un concentrato di deliri in cui il linguaggio testamentario viene piegato alla retorica guerrafondaia. È lui, ben più di Jasmine, lo specchio di un mondo senza nerbo e coscienza, senza uno scheletro su cui poter reggere una dirittura e una posizione (e che, perciò, trova un’incarnazione perfetta in Ariel Bronz, corpo-macchina che si muove per automatismi). Un personaggio che sembra non aver carattere, al punto da non meritare di essere chiamato con il suo nome completo. Solo un’iniziale simbolica, comunque la si voglia intendere. La ipsilon di yes, il servile. O come una yod, lettera cruciale dell’alfabeto ebraico, il segno più piccolo eppur dal valore simbolico enorme. E che, associato a un personaggio del genere, assomiglia a un attacco diretto a tutta una cultura e una visione del mondo.

Eppure, Nadav Lapid è consapevole, anche, di quanto sia difficile e doloroso vivere il dissenso e trovare forme efficaci di espressione. Perciò mette a confronto Y. con la sua vecchia amica Leah, che ha scelto la via dell’impegno e della dissidenza. In un viaggio nel deserto e nell’evidenza dell’incubo che culmina sulla Collina dell’Amore, da dove si vede lo scenario di fuoco e fiamme su Gaza. E, soprattutto, sceglie di non ripagare con la moneta dell’odio e della vendetta la sua coppia di protagonisti. La furia è riservata ai potenti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3 (1 voto)

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