Youth (Spring), di Wang Bing

Un altro documentario che affronta i nodi problematici dei modelli di sviluppo. Ma Wang Bing racconta anche una “gioventù” che tenta di inventare una vita oltre i disastri. In concorso a #Cannes76

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La città di Zhili, a poco più di 100 km da Shanghai, è uno dei poli principali dell’industria tessile cinese, che accoglie ogni anno almeno trecentomila lavoratori stagionali da tutte le provincie della zona. Si tratta, molto spesso, di intere famiglie, di gruppi che provengono dallo stesso villaggio. Ma soprattutto di ventenni che si trasferiscono dai loro luoghi d’origine secondo le esigenze del lavoro stagionale. E in quei mesi condividono ogni cosa. Alloggiano e mangiano in dormitori comuni, si incontrano tra i corridoi e i ballatoi e, soprattutto, passano 15 ore al giorno a lavoro.  È su questi ragazzi che si concentra Wang Bing, nel suo nuovo documentario che nasce dal solito metodo di immersione, fatto di incontro e osservazione. Un lavoro di cinque anni di riprese, oltre 2600 ore di materiale accomunato, finalmente condensato in tre ore e mezzo di film. Ben al di sotto di altre opere fluviali, ma comunque uno spaccato profondo di un’economia fuori dal comune per il sistema cinese, normalmente controllato dallo Stato e dalle banche.

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Qui non ci sono i grandi impianti industriali, ma migliaia di officine messe in piedi con grande velocità e senza molte formalità burocratiche. Si tratta, dunque, di piccole imprese familiari specializzate in abbigliamento per l’infanzia, che occupano al massimo una ventina di operai per cicli di attività stagionali, da luglio a primavera. In questo contesto, ovvio che le condizioni dei lavoratori sono durissime. Luoghi per lo più improvvisati in minuscole attività produttive in cui non vige nessuna misura di sicurezza, tempi di lavoro assurdi, una retribuzione incerta, commisurata alla quantità di capi prodotti e soggetta alle fluttuazioni del mercato. Epperò, in questa realtà frammentaria, parcellizzata, si delineano anche prospettive diverse rispetto all’economia centralizzata, dominata dallo Stato. Come sottolinea anche Wang Bing nelle note di presentazione, siamo di fronte a una struttura che si regge sull’iniziativa particolare di individui che si raggruppano e si sostengono mutualisticamente. Quindi di “un’industria che affonda le sue radici nella popolazione, a differenza di altri settori”, costruendo “un’ecosistema interessante dal punto di vista antropologico e sociologico”. In cui sembrano addirittura ritornare forme d’organizzazione primitiva e arcaica. Una specie di modello alternativo, che nonostante tutte le storture e le contraddizioni, pare quasi aprire direzioni impreviste di uno sviluppo più umano.

Più che un libero inventore di forme, Wang Bing si conferma come un “fondista”, un autore capace di appoggiarsi in maniera intransigente a un metodo e a un passo di osservazione, per distendere tutta l’energia e tutto il potenziale nella durata. Qui organizza la struttura in blocchi di venti minuti. Si sofferma su un’unità produttiva, segue il ritmo del lavoro e la trama di relazioni che si creano tra le pieghe dei tessuti, i colpi delle macchine da cucire, le musiche sparate ad alto volume. E poi passa a un’altra fabbrica e ad altre storie possibili. Nel frattempo, indugia sugli spazi di connessione, i dormitori, i ballatoi, gli esterni delle città dove si sviluppano le attività di servizio e dove si prova a immagina quel po’ di tempo libero che rimane. In questo movimento, gli individui non sono mai “isolati”. Anche quei personaggi su cui indugiano di più le immagini fanno parte di un racconto “corale”, in cui ogni volto e ogni esperienza si inserisce in un organismo unico, complesso. Ed è per questo che, più di ogni altra cosa, a contare sono le forme di legame che si creano. Per quanto precarie, instabili, per quanto percorse da tensioni, da scintille di conflitto nevrotico. Sì, certo, Wang Bing non indietro e non nasconde gli aspetti più alienanti, le difficoltà e le miserie, i nodi problematici dei modelli di sviluppo. Ma delinea anche il racconto generazionale di una “gioventù” che tenta di inventare un’esistenza oltre i disastri. E perciò incontra amori, litigi e seduzioni, momenti di divertimento tardoadolescenziale, canzoni cantate a squarciagola. Fino alle contrattazioni, alle battaglie per i debiti da pagare, ai ritorni a casa. Una vitalità insospettata che diventa un’intimità politica.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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