Yussef Dayes in Japan: l’arte guarda sempre più ad est

L’incontro del batterista britannico con la cultura nipponica, raccontato in un documentario, diventa l’esempio di come l’epicentro delle arti si sta spostando sempre di più verso l’Estremo Oriente


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Nel 1984 i tedeschi Alphaville diventavano noti in tutto il mondo con il loro primo singolo, Big in Japan. La canzone racconta di un artista un po’ sfigato, anzi, come lo definiva lo stesso frontman del gruppo Marian Gold, un perdente assoluto, che si difende da chi lo ritiene tale sostenendo di essere famoso in Giappone. Si allude, neanche troppo velatamente, all’insignificanza di un’eventuale fama nel paese del Sol Levante, troppo lontano per poter essere davvero rilevante. Incredibile ma vero, la prospettiva in pochi anni si sarebbe del tutto capovolta, con l’influenza dell’Estremo Oriente nell’immaginario collettivo che oggi invece conta e non poco in Occidente. Tanti gli artisti che trovano la propria ragion d’essere proprio nel gigantesco mercato nipponico, flirtando con l’estetica di manga e anime, con le filosofie orientali e con le atmosfere vaporwave. Spinto proprio dalla volontà di scoprire di persona la cultura giapponese, anche il batterista jazz britannico Yussef Dayes ha compiuto un viaggio nell’isola di Okinawa alla ricerca di nuove sonorità, che si sono poi concretizzate nel documentario Yussef Dayes in Japan, mediometraggio disponibile sul canale YouTube dello stesso artista.

Quest’ultimo, inglese classe 1992 di origini giamaicane e rastafariane dal lato paterno, è tra i più importanti astri nascenti della scena jazz mondiale. Cresciuto in una famiglia di musicisti, raggiunge la notorietà grazie alla partecipazione al duo Yussef Kamaal, nato dall’incontro con il tastierista Kamaal Williams, con cui pubblica l’album Black Focus (2016). Dopo lo scioglimento avvenuto nel 2017, collabora dapprima con il chitarrista Tom Mish per il disco What Kinda Music (2020), per poi iniziare invece la propria carriera da solista, pubblicando nel 2023 Black Classical Music.

Proprio da quest’ultimo sono estratti alcuni dei brani eseguiti da Yussef Dayes e dalla sua band in un concerto eseguito proprio in Giappone, avvenuto in una suggestiva location con il monte Fuji sullo sfondo e mostrato nel documentario recentemente pubblicato. Tra un pezzo e l’altro, seguiamo il viaggio del batterista in diverse città giapponesi, durante il quale ricostruisce il proprio rapporto con la cultura nipponica incontrando un musicista di taiko (percussioni tradizionali locali), il curatore di un museo di grammofoni, un’artista di shodō (l’arte della calligrafia) e il gestore di un negozio di vinili.

Per Dayes il viaggio in Giappone diventa quindi la possibilità di connettersi con la natura, tornando ad una modalità d’esecuzione simile a quella con cui suonava da ragazzino, quando incideva la propria musica in una sorta di oasi naturale costruita dal padre nel caos londinese. Yussef Dayes in Japan è quindi registrato comprendendo i suoni dell’ambiente che circonda i musicisti, eseguendo solo un take per ogni brano. Ciò che più colpisce il batterista è la possibilità di immergersi nella quiete che le città giapponesi, seppur nella confusione e nel fracasso, regalano. Tutto ciò si converte anche in nuove sonorità, con i pezzi eseguiti durante il concerto che non sono più mere riproposizioni dall’album dell’artista (per l’appunto Black Classical Music), ma appaiono anzi nuove composizioni, non ancora raccolte in dischi o disponibili online, bensì ascoltabili solo durante la visione del documentario. Ecco quindi Amami o Fuji Yama, eseguite con la musicista folk Minami Kizuki, che dimostrano il passo di Yussef Dayes oltre le proprie sonorità classiche.

Yussef Dayes

L’operazione va poi osservata anche come ulteriore dimostrazione della fascinazione che sempre più gli occidentali subiscono da parte delle culture orientali. Un tempo qualcosa di simile era avvenuto nei confronti dell’India, meta prediletta di viaggi, fisici e metafisici, all’insegna della psichedelia. Ne sono un esempio gli ultimi album dei Beatles (The Beatles, Abbey Road o Let it Be) o la musica di Alice Coltrane. Nel caso del Giappone tuttavia quest’influenza è stata segnata da uno scambio più lento, più graduale, forse più radicato. Un tempo il paese asiatico era semplicemente una tappa necessaria nei tour mondiali dei più grandi artisti per capitalizzare la fama costruita in un mercato poco conosciuto, ma di cui si intuivano le enormi potenzialità. Poi c’è stata invece una fase in cui sembrava immancabile la pubblicazione per il mercato nipponico di versioni iper esclusive dei nuovi album, con paradossalmente gli appassionati occidentali disposti a fare follie per accaparrarsi su eBay le release in Japan dei propri musicisti preferiti. E poco tempo dopo, con l’ascesa di social come tumblr e quindi dell’estetica vaporwave da anime, sono arrivate opere di artisti di punta del panorama occidentale prodotte alla ricerca di quelle atmosfere, come The Magic Whip dei Blur (la band non pubblicava nulla dal 2003 e ha registrato il disco proprio durante un tour in Asia,tra Hong Kong e Giappone) e Hyperspace di Beck, quest’ultimo con sonorità synthpop/vaporwave e con la copertina che presenta il titolo in alfabeto katakana e l’artista statunitense posare davanti ad una Toyota Celica in uno scenario à la Akira.

Insomma, la mossa di Yussef Dayes si muove semplicemente in continuità con il progressivo spostamento verso est dell’epicentro culturale (ed economico) del mondo (non solo per quanto riguarda a musica, ma si pensi anche all’Oscar a Parasite o al successo di Perfect Days di un redivivo Wim Wenders appena un anno fa). Sono passati quasi quarant’anni dal successo degli Alphaville, ma, in controtendenza con la loro visione, oggi sembra che convenga decisamente essere Big in Japan.


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