Yvonne Sanson, le lacrime del mèlo

Parlare della Sanson (nata a Salonicco e morta ieri all'età di 77 anni) equivale a dire di un cinema presto dimenticato, o semplicemente bypassato. Significa parlare di Matarazzo, dell'amore filmato come molla compressa poi esplosa in un turbine furibondo di forme che riepilogano in modo lancinante una cultura, uno sguardo, un modo di vedere le cose.

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Fa uno strano effetto leggere della morte della Sanson. Strano perché rappresenta il concretizzarsi definitivo di una presenza/assenza mancante come corpo sullo schermo da lontano 1970 (l'anno del Conformista di Bernardo Bertolucci), ma anche perché la Sanson non l'abbiamo mai vista/ immaginata/ letta come fisicità capace di venire meno al tempo, di rovinarsi e lasciarsi andare al destino dei corpi comuni. Era/è lì, assiderata nell'emiciclo luminoso di una memoria cinematografica che accarezza la nostra storia, e ci spinge dolcemente a fare i conti con il peso di un rimosso tenuto tropo tempo occultato. Parlare della Sanson (nata a Salonicco nel 1926) equivale a dire di un cinema presto dimenticato, o semplicemente bypassato. Significa parlare di Matarazzo, dell'amore filmato come molla compressa poi esplosa in un turbine furibondo di forme che riepilogano in modo lancinante una cultura, uno sguardo, un modo di vedere le cose. Ma ancora di più un sistema espressivo per rinascere dopo la guerra, in un Paese ancora coperto dalle macerie. La Sanson (a partire dal suo rimo film del 1943) non si limita ad interpretare (prerogativa di quasi tutte le sue colleghe italiane del cinema anni Trenta), ma fa molto di più, reinventando un'idea di femminilità, sfumando i contorni e producendosi nella rappresentazione di un corpo quasi fantasmatico nel suoi adattarsi di volta in volta al fragore assordante di situazioni volutamente spinte al limite. Non è una semplice addizione di coordinate fisiche/espressive, ma il tentativo di dare corpo, lacrime e sangue all'idea di una donna che sappia essere presenza viva e costante, e che riesca soprattutto a porsi quale elemento risolutore di una dialettica non più virata soltanto al maschile. Se il melodramma si alimenta di fratture e ricomposizioni continue sino all'esito finale, la Sanson ne rappresenta il motivo conduttore, una sorta di eterno ed affascinate incrocio che porta sulla propria pelle i segni di uno sdoppiamento che lacera e polarizza, creando dialettiche arditissime e contaminazioni assolutamente azzardate (specialmente poi per l'epoca).

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Già ne Il Delitto di Givanni Episcopo (opera del 1947 di Lattuada) l'attrice rappresenta il punto di rottura della discesa del protagonista (un grandissimo Aldo Fabrizi), il concretizzarsi di un'idea fantastica incapace però di prendere forma reale. In questo senso la Sanson vive di luci ed ombre, occupa spazi quasi defilati per restare poi confinata all'interno di un terreno apertamente onirico, spazzato da inquadrature che quasi ne segmentano il corpo per restituircelo dilazionato, smembrato in tanti piccoli frammenti (fortissimo in questo frangente il ricordo del romanzo omonimo di D'Annunzio) illuminati da una luce tenue, incapace di produrre una sua totale trasparenza. Già da questa prima opera comunque, si intravede la doppia possibilità incarnata dalla attrice: quella di donna fatale (che di fatto nel film di Lattuada è fino ad un certo punto) e quello di donna ben integrata all'interno di un preciso ordine borghese (quello che di fatto inizia ad abitare sposando il protagonista). Si tratta allora di oscillare continuamente tra questi opposti, finendo per provocare contatto e frizione (in Campane a martello l'attrice è una prostituta che entra in contatto con il mondo ecclesiastico) confondendo appunto gli estremi (innocenza/peccato, santa/puttana) e finendo per rovesciare di segno ogni coordinata. Si tratta di entrare ed uscire dal personaggio (in Il Delitto di Giovanni Episcopo come adescatrice prima e come moglie poi, in Campane a martello come epifania di un peccato leggibile come spettro del passato), ma anche di viverlo fino alle estreme conseguenze. E il caso del bellissimo Catene (1949) in cui l'attrice è in grado di riscrivere sulla carne della normalità (tutto l'inizio con il suo apparire quale istitutrice di un preciso ordine domestico destinato però a durare poco) un delirante volo lungo superfici inquiete (il magnetico Nazzari, sospettando il tradimento della moglie, appunto la Sanson, uccide il suo rivale e scappa in America) che la vedono soccombere di fronte all'egotismo dell'universo maschile, ma che in fin dei conti la liberano dalla prigionia (non a caso il titolo allude a non meglio precisate "catene"), permettendole una mobilità virtuale acceleratissima (la deposizione finale in tribunale in cui letteralmente inventa un adulterio mai esistito per scagionare il marito). Nell'universo matarazziano la donna non è (come molti hanno creduto) un'appendice dell'uomo, ma l'unica presenza in grado di provocare passione, sentimento, azione, muovendo sempre da un monoset casalingo da cui irradia fascino e mistero. Già in quest'opera (rivalutata, come peraltro l'intero corpus dell'opera matarazziana, soltanto negli ultimi anni) Yvonne Sanson vive la sofferenza dell'umiliazione, del ricatto morale, dell'offesa, eppure grazie a snodi impensabili, diremmo quasi miracolosi, non fa altro che imporre il proprio sguardo, sottraendolo quasi di forza al protagonista Nazzari che appare infine come dominato dalla complessità della donna (non può far altro infatti che uccidere l'uomo sbagliato, fuggire per poi tornare ed essere infine salvato).


L'attrice si muove all'interno di un set dominato da forze opposte, ma al tempo complementari: da un lato il rigurgito del neorealismo che immerge i corpi in cornici assolutamente verosimili, dall'altra il superamento di questo in nome di triangolazioni nervose che rifanno letteralmente il decor dell'inquadratura, finendo per sommergerlo in un bailamme attraente e infuocato di linee compositive non più inquadrabili all'interno di una precisa formattazione espressiva. Lo stesso si potrebbe dire per il successivo Tormento (si tratta di fatto di una vera e propria trilogia culminata poi con Figli di nessuno) in cui la polarità tipologica dell'opera precedente si sfrange in mille pezzi, dando subito il via ad una serie di spostamenti/peripezie che vedono la Sanson fuggire di casa col fidanzato, rimanere incinta, e aspettare che l'uomo esca di galera (per un delitto che peraltro non ha commesso), litigando nel frattempo con la matrigna. Anche qui l'attrice si alimenta di continue ripartenze, non sta su un ruolo più di tanto (da giovane spensierata, a donna ipercosciente dei suoi doveri nei confronti della figlia e del marito), per abitare uno spazio mutante, ricco di aperture improvvise e di crepe che lo costringono continuamente a rinnovarsi in altre forme. Come spesso accade in Matarazzo, l'uomo è ridotto ad una semplice comparsa (simile da questo punto di vista lo sguardo di Almodovar che soltanto nel suo ultimo Parla con lei racconta l'uomo), visto che anche qui non fa altro che denunciare la propria assenza (o emigrato, o condannato alla prigionia per un reato non commesso), mentre il fuoco lento della messinscena si concentra sui corpi delle due protagoniste (oltre alla Sanson, la bravissima Tina Lattanzi) che parlano, discutono, si animano, in preda a spasmi febbrili e liberatori che, pur aderendo ad un sostanziale gioco delle parti ormai inveterato, sono come sfiorate da una brezza leggera e folle che ne sancisce la lontananza "ideale", pur unendole in un abbraccio di forme che dà vita ad una sorta di corpo unico che si contorce e si agita, muovendo la visione ed elettrizzandola lentamente. La complessione sentimentale matarazziana è stata spesso avvicinata al feuilleton ottocentesco, ma si tratta di una lettura che ne prende in considerazione soltanto l'aspetto più evidente, più superficiale. La Sanson infatti, come abbiamo già detto centro propulsore dei meccanismi del mondo del regista, è ben lontana dal riproporre i lineamenti del romanzo d'appendice, ne sfrutta semmai lo schema iniziale, per stravolgerlo, trascinandolo in un vortice emozionale che scoppia con i due capolavori assoluti del regista che sono Figli di nessuno e Angelo bianco. Qui Matarazzo si avvicina a punte teoriche impensabili, facendo del suo cinema un dispositivo di forme che si gemmano, inquiete e mobili, lungo la superficie nodosa di un set sempre uguale a se stesso, dunque ancor più autoreferenziato e tagliato addosso alla figura di una Sanson che in Figli di nessuno si innamora del proprietario di una cava di marmo, resta incinta, dando poi alla luce un bambino che le viene tolto dalla madre del suo amante. Per poi ritirarsi in un convento, diventando Suor Addolorata.

E' un grande gioco di apparenze e di falsi movimenti, un turbine erotico e passionale che Matarazzo descrive come infernale cul de sac (la claustrofobia dell'amore tra i due protagonisti trova sbocco finale all'interno di un convento in cui la sessualità è negata, occultata, travestita da ossequioso rigore formale). E' la lezione del cinema precedente (tornano soprattutto certi aspetti quasi clonati di Tormento), qui portati a delle conseguenze sbilanciatissime. Matarazzo stringe sui corpi dei due giovani amanti, per poi inventarsi l'impossibile primo piano di una suora che altri non è che la donna di prima, come mutata di segno, rinata in un corpo differente. La Sanson vive due, tre volte, in un cinema che frantuma la storia individuale, facendola sfociare in una miriade di altri racconti paralleli, con un gusto della ridondanza mai fine a se stessa, ma sempre spinta su zone in cui i corpi sono come azionati da molle che li disperdono in chissà quale rivolo del racconto, per poi magari farli incontrare nuovamente, cambiati (la bellissima sequenza dei due che si ritrovano dopo tanti anni davanti al letto del figlio incidentato). La Sanson diventa così simbolo di una donna dai connotati assolutamente sfaccettati, capace di rappresentare la maternità così come il peccato, restando sempre meravigliosamente ambigua, proprio perché unico corpo mutante della scena, capace di rinnovarsi ogni volta, e di lasciare impressi nel campo visivo dei graffi dolorosi che la dispongono sempre fuori/dentro il set allestito. Ne L'angelo bianco poi (di fatto una sorta di sequel di Figli di nessuno) il protagonista Nazzari si innamora di una ballerina, una certa Lisa (la Sanson) che le ricorda moltissimo la sua amata Luisa (la protagonista del film precedente, naturalmente sempre la Sanson), per poi precipitare in un tunnel in cui ogni visione pare come sdoppiata, centrifugata da un centro che non esiste, per ondeggiare pericolosamente nella formazione di un corpo mai dato per intero, ma sempre lavorato in sottrazione, misteriosa spia nevralgica che si impossessa di ogni area rappresentativa (la onnipresenza del corpo sempre uguale, sempre diverso della Sanson) complicandola, e continuando a tessere un gioco appassionato e vibrante di rimandi e coincidenze che sono cinema allo stato puro. Matarazzo ha trovato nella Sanson una possibilità espressiva eccezionale: il suo è un melodramma vissuto sempre in un interno, e investito dall'aria di quello che è sempre stato definito come neorealismo popolare. Non siamo però del tutto d'accordo. Il neorealismo era già finito, e Matarazzo già a partire dagli anni Cinquanta ne era ben consapevole. Il suo è un melodramma di interni (a differenza di quello di De Santis) che ricicla vecchie formule tematiche (qui va pure bene l'aggancio con il feuilleton), condotte però di fatto in regioni espressive che riconfigurano un modo di vedere il cinema, insistendo su una forma quasi barocca, piena di chiaroscuri, di luce e di tenebre, contemplando al centro della prospettiva una donna che vive la fantascienza impossibile di una libertà di fatto negata, ma sognata/vissuta/filmata proprio all'interno di un nucleo già scoppiato, in un fragore improvviso di sguardi che vanno subito oltre la rigidità imposta del cosiddetto contenuto. In questo senso la Sanson è stata proprio questa forma significante, il corpo su cui giocare un melò tiratissimo, estremo, nella misura in cui sfrutta le apparenze, per intagliare su di esse l'immagine di un corpo danzante tra l'identificazione (celebre a questo proposito l'effetto che i melodrammi interpretati dall'attrice facevano alle platee degli anni Cinquanta) e lo straniamento, la vicinanza e la distanza siderale (elementi assolutamente sconosciuti alla successiva formazione di un cinema interamente scritto che con opere come Poveri, ma belli e Pane amore e… dette vita alla commedia all'italiana).La Sanson comunque dopo il sodalizio con Matarazzo (continuato con Torna, Chi è senza peccato…e Malinconico autunno) cercò di ricilarsi in opere in cui però non riuscì mai ad eguagliare il tenore delle opere degli anni Cinquanta, finendo così per ritirarsi a poco più di quarant'anni. Di lei ci resta il primo piano, il pianto ininterrotto, la forza di impersonare una modello di donna controversa e irrisolta. Vero cuore del melò italiano.

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    2 commenti

    • jose maximiano

      Caro n. s.Srs.<br />Sono da Portogallo e vorrei chiedere un favore di piccole dimensioni. Ha bisogno di ottenere la mano di una figlia di Yvon Sansom "già morto", una lettera. Credo che il suo nome è Giana e architetto e vive nella città di Bologna. Se possibile darmi il loro indirizzo e ho molto apprezzato uno dExm indicazione di s.Srs.<br />Sono da Portogallo e vorrei chiedere un favore di piccole dimensioni. Ha bisogno di ottenere la mano di una figlia di Yvon Sansom "già morto", una lettera. Credo che il suo nome è Giana e architetto e vive nella città di Bologna. Se possibile darmi il loro indirizzo e apprezzo molto l'indicazione del modo migliore per esprimere le loro mani. Vi ringrazio in anticipo av / uimportancia attenzione a tale importante per me. – Jose MaximianoI modo migliore per arrivare alle mani. Vi ringrazio in anticipo av / importancia attenzione a tale importante per me. – Jose Maximiano – sconcerto1@gmail.com

    • jose maximiano

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