Zaho zay, di Maéva Ranaïvojaona, Georg Tiller

Il film dei due registi è un interessante esperimento narrativo che, seppure non nuovissimo, sa farsi reperto originale. In TFFDoc Internazionale del #TFF38

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Zhao zay sono le parole di risposta all’appello che pronunciano i detenuti del carcere malgascio dove la regista francese Maéva Ranaïvojaona e l’austriaco Georg Tiller hanno girato l’omonimo film, che si rivela presto interessante esperimento narrativo che, seppure non nuovissimo, sa farsi reperto originale, introspezione vicina ad una forma onirica della manifestazione della coscienza, per l’invenzione ulteriore di una strada narrativa alternativa rispetto ai canoni consolidati.

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Una donna, guardia carceraria, rivive dolorosamente la figura paterna, ma soprattutto l’incubo dell’assassinio compiuto dal padre ai danni del fratello. La figura evanescente dell’uomo vaga nel villaggio e, nell’immaginazione della donna, il padre diventa un killer che gioca a dadi la sua sorte e quella delle sue future vittime.

La voce fuori campo della narratrice accompagna le immagini senza mai diventare espediente per uno sterile didascalismo, senza nessuna forzatura enfatica. Il pregio delle parole risiede nella ricercatezza evocativa del loro senso. Parole ed evocazioni che richiamano le paure dei passati fantasmi, danno forma dialogante a inquietanti presenze, dentro scenari naturali di una selvaggia e quasi intimorente bellezza. Dentro questi fondali si stagliano le figure umane, i corpi fantasmi, il fantasma anche insanguinato del padre nel suo muto e determinato incedere.

Zhao zay è soprattutto un film di atmosfere rarefatte, che prova a farsi anche modalità sensoriale della narrazione. Ranaïvojaona e Tiller realizzano un cinema esteticamente pregevole, senza cadere nell’inganno del facile manierismo. Il loro racconto sembra essere silenziato dal tempo che crea un diaframma sensibile tra il ricordo e i fatti, tra l’immaginazione quasi onirica e un passato che spinge per ritornare. Un film che sa essere cerebrale senza eccedere nella teorizzazione del registro, che si affida ad una naturale vocazione dei luoghi, compresa la prigione con la sua varia ma anche indistinta umanità, ad una riflessione più profonda sui rapporti tra passato e presente, tra luoghi come genius loci dell’esistenza e il perpetuarsi di raccapriccianti presenze che conferiscono misterioso e orrifico fascino ai luoghi.

Il film dei due autori, nella sezione Doc Internazionale del #TFF38, possiede dunque una sua precisa connotazione in un flusso di immagini nelle quali non è distinguibile il prima e il dopo, il fatto dal sogno e quindi il presente dal passato, così da farlo diventare anche flusso di coscienza. Il racconto, le parole della protagonista quasi sempre fuori campo, costituiscono il collante di questa costruzione narrativa interiore. In fondo, il cinema dei due registi racconta proprio solo questo, un mondo interiore sconosciuto e felicemente confuso tra ricordi e i desideri frustrati, come quello della donna di rivedere il volto del padre tra i detenuti. Un cinema che guarda a mondi immaginari e sconosciuti come quelli della coscienza, che trova luogo dentro scenari evocativi come quelli del Madagascar, un film formalmente ineccepibile e piacevole nella sua durezza, ma che resiste ad ogni pura estetizzazione, e, al contempo, sembra, con la sua logica onirica, strutturare con sapiente operazione narrativa un tempo interiore mutevole e indeterminato.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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